Contributi storiografici

 

      -          I «TEMPLARI DI S. GIOVANNI»: 
                LA FONDAZIONE MONASTICO-MILITARE DI S. MARIA DI SOVERETO

        -       I TEMPLARI NELLA VALLE DELL'OFANTO
        -       I TEMPLARI: STORIA, MITI E FANTASTORIE
        -       IL CULTO CAVALLERESCO DI MARIA

      
      
 

I «TEMPLARI DI S. GIOVANNI»:
LA FONDAZIONE MONASTICO-MILITARE DI S. MARIA DI SOVERETO

Di recente, durante un intervento di messa in luce di dipinti murali nel vano adibito a sacrestia della chiesa del santuario di Sovereto
silenzioso borgo non lontano da Bari , è affiorato un interessante ciclo pittorico che Fabrizio Vona, già direttore dei lavori di restauro effettuati tra il 2000 e il 2001, ha definito «un raro esempio di decorazione quattrocentesca che si apparenta con alcuni esempi della pittura templare» (1). Il registro superiore dell’apparato pittorico della parete nord presenta, infatti, due quadrati incrociati tra loro i cui lati, rotati a mo’ di Sigillum Salomonis (2), configurano una stella ad otto punte, stella che, nella mistica cristiana, è tradizionalmente associata ai misteri dell’Incarnazione e della «rinascita». Nel contempo, l’immagine del doppio quadrato, riproposta nell’architettura romanica quale ideale prolungamento nel santuario cristiano del biblico Tempio di Salomone, ci rimanda all’idea del tempio escatologico e, quindi, alla Gerusalemme celeste di cui Cristo è pietra angolare: tanto più che, sul medesimo registro, procedendo da sinistra verso destra, campeggiano un sole raggiante – «Sol salutis occasum nesciens» – e, stilizzato fiore quadrilobato, una croce rossa ad otto punte. Prospettive, queste, già affioranti nel ciclo di affreschi della chiesa templare di Montsaunès, nell’Haute-Garonne, dove, come ricorda lo storico dell’arte Gaetano Curzi, si ripropone «il tradizionale accostamento, sia formale che semantico, del chrismon ai corpi celesti, secondo un’assimilazione di consolidata tradizione, basata sui passi biblici che identificano Cristo come “vera stella”» (3). Analogamente, nella grammatica figurativa della chiesa templare di San Bevignate, a Perugia, si rileva una «sequenza di allegorie cristologiche» che «dalla croce del supplizio» va «al Cristo-luce» e, quindi, «all’assimilazione di Cristo come “vera stella”» (4).

La menzionata proposta di datazione degli affreschi (a tutt’oggi, non ancora definita) attribuisce l’opera alla committenza dei Cavalieri Gerosolimitani, i quali, almeno a partire dal XIV secolo, detennero il complesso fortificato di Sovereto prima come precettoria, quindi come commenda: una presenza comprovata già da una charta del 1309 (5), documento con il quale «frater Poncius de Podio», «preceptor sancte Marie de Severito», rivendicava i beni dell’Ospedale «indebitamente» tenuti dal priore di S. Martino della diocesi di Molfetta. Ma non si può peraltro escludere che l’hospitale di S. Maria di Sovereto, ubicato a poche centinaia di metri dal tracciato dell’Appia Traiana, costituisse, in origine, una fondazione templare.
Se è vero, infatti, che la militarizzazione dell’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme non ne snaturò l’originaria funzione assistenziale e che l’«obsequium pauperum» (il servizio reso ai poveri) continuò a caratterizzarne la tradizionale vocazione, è altrettanto vero che l’Ordine dei Cavalieri del Tempio, sin dalle origini «religio militaris», non si limitò alla «tuitio fidei» (la difesa armata della Fede): votati alla protezione dei loca sancta e dei «viandanti del sacro», i Templari si prodigarono nel pattugliamento delle strade, assicurarono il controllo dei guadi, costruirono ponti e sicuri hospitales, affidabile punto di riferimento per le «turme» dei pellegrini che, dall’Estremadura alla Terra d’Otranto, guardavano confortati ai frati come a provvidenziali angeli guerrieri. La rete delle loro precettorie, particolarmente estesa lungo le vie delle «peregrinationes maiores» (i pellegrinaggi a Roma, Gerusalemme e Santiago di Compostela), era, infatti, talmente fitta che solo un giorno di marcia separava una magione dall’altra. Se restano, quindi, dubbie le affermazioni di Frammarino dei Malatesta, che in uno scritto del 1856, citando una perduta «memoria» del «Vicario foraneo di Terlizzi don Genesio Cliro», riferì che i «Templari» di Sovereto involarono un dipinto mariano recato in Puglia dalla Siria da un crociato di origini francesi, ben altra considerazione merita, a mio avviso, la testimonianza di don Vito Bisceglia, vicario generale di Altamura che, in una lettera inviata nel 1798 a don Michele Toscia, «regio bibliotecario ed archiviario napoletano», parlò di un «propugnacolo» dei «Cavalieri Templarj» stabiliti nel territorio di Terlizzi «e precise nel luogo detto Soverito, sacro ad un’immagine della Vergine colà ritrovata (…). Divenne quello Commenda di Malta dopo l’estinzione de’ Cavalieri del Tempio» (6). Non costituisce, tuttavia, prova alcuna l’immagine della «triplice cinta» incisa su un lastrone pavimentale all’interno della chiesa e ripetuta nel cortile del santuario, perché il noto emblema, associato all’idea dell’ònfalo e, in età medievale, al simbolo della Gerusalemme celeste o alla triplice cinta del perduto Tempio di Salomone – la Cinta dei Gentili, la Cinta delle Donne, la Cinta di Israele –, non solo non costituì una prerogativa templare, ma fu (o divenne) un gioco assai diffuso nell’Età di Mezzo: si pensi, ad esempio, al «passatempo dei Crociati» trovato nel castello di Belvoir – la «Stella del Giordano» –, costruito (o ampliato) dagli Ospitalieri nel 1168. E’ vero che le ferree Regole degli Ordini militari aborrivano gli intrattenimenti di tipo ludico, ma sappiamo che gli stessi Cavalieri del Tempio non disdegnavano il gioco degli scacchi e che sul retro delle odierne scacchiere, qualunque fosse l’originario significato dell’ideogramma, figura uno schema affine a quello dell’enigmatica cinta. Del resto, una sorta di bicromatica scacchiera campeggia tra gli stessi dipinti affiorati nel santuario, affiancata, qui, dall’effigie di una scala che, presumibile richiamo alla «Scala Santa» di Giacobbe (7), conferma (o quantomeno rafforza) l’idea dell’axis mundi espressa dal rilievo arboreo pavimentale: un simbolo, questo, del biblico Albero della Vita.
Non meno interessanti le lastre sepolcrali della chiesa. In particolare, quella di Raimondo di Bolera,
«preceptor olim domus Sancte Marie de Suberito» che, secondo una charta menzionata da don Pasquale De Giacò in un saggio del 1872, nel 1297 ratificò l’atto di compravendita (datato 1219) con il quale la badessa Giacoma e due altre monache del monastero di S. Maria a Mare di Barletta vendettero a fra’ Trasmundo, precettore di S. Maria di Sovereto, «una petiam terrae quae est in tenimento Terlitii». Quanto alla religio militaris del Bolera, l’agnus Dei sullo scudo e la croce ad otto punte sul mantello sembrano parlarci, più che di appartenenza templare, di affiliazione all’Ordine fondato dal Beato Gerardo (m. 1120) e militarizzato sotto la guida di Raimondo di Puy
(8).

Ad ogni modo, fondazione olim Templi o sin dalle origini gerosolimitana, la chiesa di S. Maria di Sovereto è menzionata per la prima volta in un atto mortis causa del 1175. Un certo Elia, disponendo pro anima, imponeva ai suoi due eredi (i fratelli Pietro e Plancarotta) un cospicuo lascito a favore di alcune chiese del Terlizzese: fra queste, quella di S. Maria «de Suberito», il che lascia supporre che doveva trattarsi, da tempo, di un centro di rilevante interesse religioso. Ventott’anni più tardi, nel 1203, una Maria «abbatissa ecclesie Sancte Marie de Suberito» apponeva la sua firma su una transazione relativa alla donazione di un’oblata, una nobildonna di nome Gemma; ed è significativo che, accanto a due altre sorores, figurino quali rappresentanti dell’ecclesia anche un «prior», un prete e un laico. Naturalmente, la compresenza nel santuario di religiosi e, insieme, di religiose, rispondeva all’esigenza di garantire assistenza ai pellegrini di entrambi i sessi, sicché don Vito Bisceglia, pur chiedendosi quanto ciò fosse «lodevole», parlò senz’altro di«costumanza (…) di que’ tempi» (9). Quanto alla comunità delle sorores, la tradizionale denominazione di «monache di S. Marco» (dall’intitolazione di una chiesetta ubicata nella cinta del santuario e in dotazione alle stesse) ci dice ben poco circa l’Ordine di appartenenza; ma il De Giacò, attingendo a fonti perdute, parlò di «due conventini separati» e, dubbioso circa la possibilità che «i Cavalieri che vennero in Soverito» fossero «Teutonici» o «Templarii», concluse che, «con più ragione e fondamento», ad insediarsi furono «i Cavalieri Ospedalieri di Gerusalemme e le religiose dell’istess’ordine, istabiliti gli uni e le altre per tale particolare ufficio nel 1119» (10).
Di certo, il culto di Maria, oggetto di particolare devozione da parte dei Templari come dei Cavalieri di S. Giovanni, vi si praticava con ardore sin da quando, «un bel giorno d’Aprile, che tiensi per certo il dì 23 di detto mese», «un rozzo semplicissimo pastore di virile età», mentre «conduceva a pascolo il suo amato gregge nel bosco o Sovero di Terlizzi», sentì «a breve lontananza belare una pecorella impedita a camminar oltre» e, liberatane prontamente la zampa, si accorse che dalla buca in cui s’era infossata trasparivano «raggi di miracolosa, viva ed insolita luce». Il clero e il popolo terlizzesi, accorsi lestamente sul luogo, scoprirono «l’adito d’una grotticella» e vi trovarono «una immagine di M. SS. col Bambino Gesù tra le braccia dipinta sopra particolar legno…» (11).
Così riferì il De Giacò la «costante e pia tradizione avvalorata da vetuste immagini» e «trasmessa fedelmente per circa dieci secoli da padre in figlio»: una tradizione tuttora viva, fondata sulla venerazione di un’icona che, tempera su tavola d’ingenuo gusto bizantineggiante, nella sua sancta simplicitas tanto dovette parlare al cuore di quei «Templari di S. Giovanni» che, al pari dei confratelli del Tempio di Salomone, invocavano la Vergine come «Maris Stella» e «Nos Socor».

Un luogo, dunque, ricco di storia, fucina di tradizioni e pie leggende: un luogo dello spirito che, sgombro dai vaneggiamenti di inquieti detective dell’occulto poco avvezzi all’uso delle fonti ed auto-esonerati da ogni dovere di prova, testimonia del naturale ruolo della Puglia quale ponte e terra d’accoglienza, veicolo di scambi e sincretismi culturali le cui mirabili tracce, scolpite nella pietra, hanno continuato a sfidare i secoli nelle facciate delle sue chiese.
                                                                                  Note

1)       In: “La Puglia tra Gerusalemme e Santiago di Compostella”– Atti del III Convegno Internazionale di studio, Bari-Brindisi, 4-7 dicembre 2002.
 
2)       Il Sigillum Salomonis, stella a sei punte formata da due triangoli sovrapposti e più nota come Stella (o Scudo) di David, è così denominato perché, secondo la tradizione ebraica, re Salomone se ne serviva come amuleto per fugare i demoni ed evocare gli angeli.
 
3)        Cfr. Gaetano Curzi, “La pittura dei Templari”, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2002, p. 38.
 
4)       Id., p. 43. L’antico monogramma del Cristo, raffigurato in un duplice o triplice cerchio, rappresentò l’equivalente della ‘ruota solare’, eliaco simbolo associato all’immagine del «Kronocrator» (Cristo Signore del Tempo) e quindi scandito dalla croce assiale. Polisemico come ogni simbolo, nella variante assunta nella tradizione irlandese rinviò, altresì, all’idea delle cicliche età del mondo, con il Cristo-Sole collocato al centro del progetto escatologico divino.
 
5)        Cfr. CDB VII, “Le Carte di Molfetta”, doc. CLXX, p. 222.

6)       In: “Giornale Letterario di Napoli”, CXIII, 1798, pp. 48-49. Ricordo, qui, che la bolla con la quale papa Clemente V,  a sèguito della soppressione dell’Ordine del Tempio, assegnò i beni rossocrociati del Regno di Sicilia all’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme, è datata 2 maggio 1312; sicché, se davvero i Templari gestirono l’hospitale di Sovereto, la cessione ai Gerosolimitani dovette avvenire prima del 1309, anno a cui risale l’atto di rivendicazione di fra’ Ponzio de Podio.

7)       Cfr. Gn 28, 10-22. L’immagine della Scala Santa, che nel portale centrale di Notre-Dame de Paris è accostata a una figura muliebre recante in mano uno scettro e due libri – uno chiuso, l’altro aperto –, è tradizionalmente associata all’idea del luogo sacro: la «casa di Dio», la «porta del cielo».
 
8)       Nelle incisioni e nei rilievi su pietra la croce degli Ospitalieri non sempre presenta la  nota foggia a coda di rondine.

9)        In: “Giornale Letterario di Napoli”, cit., p. 49.

10)     Cfr. P. De Giacò, “Il santuario di Soverito in Terlizzi, ossia notizie storiche e cronologiche riguardanti la invenzione della miracolosa immagine di Maria SS. Di Soverito”, F. Petruzzelli e F., Bari 1872, p. 21.
11)     Id., p. 13.                     

                                                                                                          Paolo Lopane                     

                                                                        
 

I Templari nella Valle Dell'Ofanto


Fondato nel 1119 da un gruppo di cavalieri francesi guidati da un signore della Champagne, l’Ordine dei Cavalieri del Tempio deve il suo nome al fatto di avere avuto come prima sede in Terrasanta, concessa dal re di Gerusalemme Baldovino II, un’ex moschea situata sulla spianata del distrutto Tempio di Salomone (l’Haram al-Sharif). Fedeli al loro voto di difesa dei Luoghi Santi e dei pellegrini che si recavano al Sepolcro di Cristo, i Templari acquisirono ben presto una fama ed un prestigio tali da farli assurgere, nell’immaginario dei contemporanei, ad incarnazione stessa dell’ideale di Crociata. Cavalieri e monaci ad un tempo – la loro Regola fu approvata nel 1128 –, i Templari furono sottratti alla giurisdizione episcopale e sottoposti alla sola autorità del Papa. I numerosi privilegi accordati, il profluvio di donazioni che inondò le loro sedi, il potere politico ed economico che i cavalieri rossocrociati si ritrovarono ben presto ad esercitare nello scacchiere europeo come in quello degli Stati latini d’Oriente, determinarono la loro folgorante ascesa come il loro declino e la loro tragica fine. L‘enorme ricchezza dell’Ordine lo aveva reso, infatti, un’istituzione creditizia in grado di prestare denaro a prìncipi e re, e fu uno dei più potenti sovrani d’Europa, il capetingio Filippo il Bello, a mettere in moto la micidiale macchina inquisitoria che, accusando i Templari di ogni sorta di nefandezze – dalla sodomia alla magia nera all’idolatria –, travolse quello che è a ragione considerato il più celebre ed enigmatico degli Ordini cavallereschi. Intenzionato ad incamerarne il patrimonio e ad annientare una religio militaris costituente un vero e proprio Stato nello Stato, Filippo fece arrestare i Templari di Francia la mattina del 13 ottobre 1307. L’ambiguo atteggiamento del Papa, il guascone Clemente V, concorse a decretare il loro tragico destino: dopo avere, infatti, accusato il re di avere «steso la mano» sulle persone e i beni del Tempio, nel novembre dello stesso anno il pontefice emanò una bolla – la “Pastoralis praeminentiae” – con la quale, avallando l’operato dell’Inquisitore di Francia Guglielmo di Parigi, ordinava di arrestare i frati e di metterne sotto sequestro i beni. L’ordine fu eseguito in tempi diversi: nel Regno di Sicilia la retata scattò solo quattro mesi più tardi, nel marzo del 1308, quando una ben congegnata azione di polizia, orchestrata dalla curia angioina, portò alla cattura di numerosi figli del Tempio. A Barletta, dove nel 1972 vennero alla luce numerose lastre sepolcrali templari e ospitaliere, il castellano Giovanni Brachetto prese in consegna i frati Oliviero di Bivona,Michele Cersi, Guglielmo Angelicum (=Anglicum), Bartolomeo di Cosenza, Andrea di Cosenza, Stefano di Antiochia e Angelo di Brindisi: quest’ultimo «captum … in domo Piczani» (cioè catturato nella magione di Picciano, presso Matera). Il precettore della Casa di Barletta, Giovanni de Nivelle, era già stato arrestato in Francia, dove s’era recato per il Capitolo generale. 

Barletta, ubicata nei pressi della foce dell’Ofanto, grazie alla sua posizione geografica era divenuta sede della Casa-madre del Mezzogiorno d’Italia, area che, nella mappatura del Tempio, corrispondeva all’importante provincia d’Apulia-Sicilia. Due erano infatti le province in cui l’Ordine aveva amministrativamente suddiviso la penisola: una, la Lombardia, abbracciava il centro-nord; l’altra, l’Apulia-Sicilia,comprendeva le regioni meridionali.
Innervata dalle antiche strade romane e dotata di grandi porti che costituivano il naturale punto d’imbarco per le rotte commerciali levantine e per il passagium in Terrasanta, l’Italia era letteralmente avvinta dalla rete delle precettorie templari. Edificate all’interno delle mura cittadine o ubicate extra moenia – nella forma, perlopiù, della grangia, il tipico insediamento rurale delle comunità monastiche –, le precettorie del Tempio erano solitamente dotate di cappelle, armerie, magazzini, foresterie e di quant’altro servisse a garantire l’adempimento dei loro compiti di polizia viaria e di presidio dei Luoghi Santi. Si capisce a quale importanza dovettero presto assurgere la Capitanata e la Terra di Bari: se le Case daune costituirono, per i Templari, vitali centri di produzione e di raccolta di derrate cerealicole, le precettorie dei centri adriatici di Puglia divennero gangli amministrativi in grado di assicurare gli imbarchi per la Terrasanta e la spedizione di tutto quanto occorresse al sostentamento dei fratelli d’Outremer.
Sorta di ponte fra Oriente e Occidente, la Puglia vide sorgere una delle prime Case rossocrociate nella città di Trani, dove, stando a quanto riferito dal diacono Amando (divenuto, più tardi, vescovo di Bisceglie), i Templari si erano insediati già prima del 1143. A quell’anno risale, infatti, l’“Historia translationis Sancti Nicolai Peregrini”, cronaca nella quale Amando, narrando dell’improvviso levarsi sulla cattedrale di due colonne di nuvole in occasione della traslazione delle spoglie di S. Nicola Pellegrino, riferisce che i «Milites Templi», insediati «poco distante dalla città», gridarono al miracolo.
Fu l’arcivescovato di Trani a donare alla magione rossocrociata di Barletta (fondata probabilmente nel 1158) l’ecclesia di S. Maria Maddalena, chiesa ubicata entro le mura cittadine che, consacrata a una figura alla quale i Templari tributarono sempre una particolare devozione – Maria di Magdala –, diede nome alla Casa-madre della provincia Apulia. Correva il 1169: Bertrando, arcivescovo di Trani, concesse la chiesa ai dignitari templari Rainerio e Riccardo. Frate Guglielmo, «dicte ecclesie rectoris», giurò solennemente che l’Ordine avrebbe sempre riconosciuto su di essa l’autorità dell’arcivescovato tranese. Il patto fu poi ratificato dalla Casa di Gerusalemme.
L’importanza di Barletta per i traffici e i collegamenti marittimi con la Terrasanta è attestata, fra l’altro, dalle franchigie e dai privilegi doganali accordati al Tempio ancora in età angioina. E’ del 1271, infatti, l’ordine impartito da Carlo I d’Angiò a Risone de Marra, Portolano di Puglia, di rinunciare per quattro mesi alla riscossione della balista sulle esportazioni di derrate destinate a S. Giovanni d’Acri e di cessare ogni molestia nei confronti della domus barlettana. Due anni più tardi, il 4 maggio 1273, Carlo tornò ad insistere con il Portolano di Barletta affinché venissero agevolate le spedizioni di merci organizzate dai Templari. Altri provvedimenti in favore della Casa di Barletta (e/o di altre magioni di Puglia) furono adottati fra il 1274 e il 1278.
Sull’altro lato della foce dell’Ofanto, lì dove sorge, ora, Margherita di Savoia, i Rossocrociati possedevano la chiesa di S. Maria delle Saline, ricevuta in donazione da Giovanni vescovo di Canne il 6 maggio 1158. Trentott’anni più tardi, nel febbraio del 1196, i Templari di S. Leonardo acquisirono due terre nel circondario della chiesa, cedendo in cambio ad Aitardo, vescovo di Canne, un appezzamento ubicato nei pressi di S. Cassiano. I frati, rappresentati da Pietro di S. Gregorio, stipularono la permuta con l’autorizzazione dell’intero capitolo «de Barleto», la cui giurisdizione si estendeva a tutte le precettorie d’Apulia.
Per restare nell’àmbito del bacino dell’Ofanto, vanno ancora ricordate le fondazioni templari di Minervino Murge e di Spinazzola. Della presenza rossocrociata a Minervino, «il balcone di Puglia», è rimasta traccia nell’atto di vendita di una vigna rogato nel 1169. Dinanzi a notar Leo erano comparsi Giovannaccio, priore della chiesa di S. Angelo, ed i frati Aimo e Giovanni, membri della comunità templare di Minervino ed alienanti del fondo. Li affiancava, in qualità di testimone, un altro templare, frate Oddo, probabilmente al sèguito di Enrico, Magister di Puglia, il quale, di stanza in quel momento a Barletta, si era recato a Minervino per assistere alla stipula dell’atto. A Spinazzola, sulla dorsale murgiana che fa da spartiacque fra i bacini dei fiumi Ofanto e Bràdano, i Templari erano tenutari delle chiese di S. Benedetto «de Nuce» (in località S. Cesario) e di S. Giovanni del Castello, chiesa alla quale apparteneva una masseria ubicata al confine con i possedimenti delle suore di Gravina. Dai fertili terreni che attorniavano il borgo, situato a 435 metri di altitudine, si otteneva un grano assai pregiato, forse tra i più noti ed apprezzati della provincia d’Apulia.
Risalendo il corso dell’Ofanto, ormai in terra lucana, sorgeva un altro insediamento templare, la Casa di Lavello, dove, a ridosso dell’Appia Antica, i frati possedevano oliveti, boschi, vigneti ed una grande masseria ubicata alla confluenza dell’Ofanto con il torrente Olivento (in località Girono). Non molto distante, a Melfi, fioriva l’importante magione templare di S. Nicola, comprendente la chiesa di S. Nicola di Melfi e diversi fabbricati, stabilimenti, vigne e contrade.
A Forenza, sempre nel bacino dell’Ofanto, l’Ordine amministrava la chiesa di S. Martino dei Poveri (ubicata fuori mura) ed un patrimonio immobiliare costituito da un mulino, un forno, vigneti e numerosi altri fondi. Nell’inventario redatto da Giovanni Cito di Melfi, che nel 1311 censì i possedimenti lucani della Casa di Barletta, risulta, altresì, registrato un grande casale con trenta famiglie alle proprie dipendenze. Giovanni, lo ricordo, operava per conto degli inquisitori del regno.
A Palazzo S. Gervasio, altra località lucana, i Templari possedevano bestiame grosso in quantità tale da indurre il castellano del luogo, all’inizio del XIV secolo, ad ordinarne arbitrariamente il sequestro.
A Venosa, al confine tra la Puglia e la Basilicata, i frati vantavano il possesso di un grande palazzo e di alcune case nella parrocchia di S. Barbara, nonché di numerose vigne, oliveti ed un casale.
Non meno numerosi i possedimenti ospitalieri nella Valle dell’Ofanto, incrementatisi quando, il 2 maggio 1312, la bolla “Ad providam Christi vicarii” di papa Clemente V assegnò i beni rossocrociati del Regno di Sicilia all’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme (1). Due anni più tardi, il 18 marzo 1314, moriva sul rogo l’ultimo Gran Maestro templare, Giacomo di Molay. Declinava la parabola del Tempio. Iniziava la leggenda.
                                                                                 Note

(1)       Alla domus gerosolimitana di Barletta, fondata nel XII secolo, facevano capo i baliaggi e le commende di Puglia e di Basilicata.
                                                                                                                             
                    Paolo Lopane                      

ARTICOLO TRATTO DA UN CONTRIBUTO DELL’AUTORE ALLA STESURA DEL VOLUME “OFANTO – PROGETTO INTEGRATO PER LA SALVAGUARDIA E LA VALORIZZAZIONE AMBIENTALE DELLA FOCE DEL FIUME OFANTO”, A CURA DI ANTONIO RUGGIERO CON INTERVENTO PROGETTUALE DELLA BIC PUGLIA SPRIND S.R.L. - 2004

I Templari: Storia, Miti e Fantastorie


«Fu con i templari che le nostre ricerche iniziarono a fornire una concreta documentazione e il mistero assunse proporzioni ben più ampie di quelle che mai avremmo potuto immaginare».
Così parlarono Baigent, Leigh e Lincoln, gli autori del discusso (e discutibile) saggio “The Holy Blood and the Holy Graal” che, pubblicato nel 1982 e seguìto, quattro anni più tardi, da una non meno avventurosa relecture, “The Messianic Legacy”, mescolava disinvoltamente catarismo, cavalleria templare ed occultismo d’Oltralpe, ponendo le premesse dell’incredibile fortuna mediatica che, vent’anni dopo, avrebbe incontrato il“Da Vinci Code” di Dan Brown. Basandosi su fantomatici «Dossiers segreti» inventati da un sedicente discendente della dinastia dei Merovingi e su ‘antiche’ pergamene fabbricate nel 1967 da un nobiluomo francese appassionato di enigmistica, i tre suindicati autori, sia pure in un’orgia di «forse» e di altre formule dubitative, sostenevano che la Maddalena, «l’elusiva donna dei Vangeli, era in realtà la moglie di Gesù», che «dalla loro unione erano nati dei figli» e che dopo la Crocifissione – evento di cui Baigent & co. mostrano di dubitare alquanto – la sposa del Nazareno ed almeno uno dei figli erano stati condotti nelle Gallie, dove la loro schiatta, il «supremo sang réal», si sarebbe perpetuata in incognito per circa quattro secoli e, imparentandosi con la casa reale dei Franchi, avrebbe dato vita alla dinastia merovingia. Non è finita: poiché Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, sarebbe appartenuto a tale mistico lignaggio (e, quindi, alla casa di Davide), la trionfale conquista di Gerusalemme, nel luglio del 1099, «avrebbe comportato ben più della liberazione del Santo Sepolcro dalle mani degli infedeli»: Goffredo avrebbe riacquistato «l’eredità che gli spettava» (1)
Ma ecco che entrano in gioco i Templari, giacché i Templari, come scrisse causticamente Umberto Eco ne “Il Pendolo di Foucalt”, «c’entrano sempre». Caduta Gerusalemme nelle mani dei Crociati, il Priorato di Sion, ‘misteriosa’ organizzazione fondata ad Annemasse (Haute-Savoie) nel 1956 ma fatta risalire al 1099, avrebbe protetto il «terribile segreto» e tramato affinché la stirpe del «sang réal», ‘legittimamente’ assurta al trono gerosolimitano, potesse coronare i suoi sogni di supremazia sui potentati spirituali e temporali dell’universo mondo. Occorreva, a tal fine, un braccio armato, una granitica istituzione militare che, nominalmente alleata del trono e dell’altare, creasse un potente apparato economico-finanziario in grado di insinuarsi nei gangli direttivi della stratificata società medievale: la religio militaris dei Cavalieri di Cristo. «Con il tempo», scrivono Baigent & co., «se avesse consolidato la sua posizione in Palestina, la “tradizione reale” discesa da Goffredo e Baldovino avrebbe probabilmente rivelato le proprie origini. Allora il re di Gerusalemme avrebbe avuto la precedenza su tutti i sovrani d’Europa, e il patriarca di Gerusalemme avrebbe soppiantato il papa. Spodestando Roma, Gerusalemme sarebbe divenuta la vera capitale della cristianità, e forse non soltanto della cristianità. Infatti, se Gesù fosse stato riconosciuto come un profeta mortale, un re-sacerdote, legittimo sovrano della stirpe di Davide, sarebbe divenuto accettabile per i Musulmani e per gli Ebrei. Quale re di Gerusalemme, il suo discendente diretto sarebbe stato in grado di realizzare una delle dottrine fondamentali della politica dei Templari: la riconciliazione del cristianesimo con il giudaismo e con l’Islam» (2).
Lo stesso Bernardo di Clairvaux, la più carismatica figura della cristianità del tempo, sarebbe stato un uomo del Priorato. Ciò spiegherebbe l’influsso da lui esercitato sulla Regola templare e la composizione di quel vibrante panegirico sulla «nuova Cavalleria» – il “De laude Novae Militiae” – che, mistico manifesto della dottrina delle «Due Spade», il cistercense dedicò ad Ugo di Payns, il primo Gran Maestro della Milizia del Tempio. Sicché, semplici pedine nelle mani dei «governanti occulti» del mondo, i cavalieri francesi che, intorno al 1119, s’impegnarono dinanzi al patriarca di Gerusalemme a vivere «come canonici regolari» e nel contempo si votarono alla protezione dei pellegrini e alla difesa della Terrasanta, si sarebbero insediati nell’area del perduto Tempio di Salomone al solo scopo di effettuarvi degli scavi e di rintracciarvi le presunte prove del matrimonio di Gesù: prove, queste, che, utilizzate come strumento di ricatto nei confronti della Chiesa, spiegherebbero il prodigioso arricchimento dell’Ordine e i numerosi privilegi che i pontefici gli accordarono. «Non c’era dubbio», infatti, «che i Cavalieri Templari erano stati inviati in Terrasanta con l’espresso compito di scoprire o di ottenere qualcosa», e «sembra che avessero trovato ciò che dovevano cercare, e che lo portassero in Europa» (3).
Se, quindi, questi strenui combattenti si prodigarono per quasi due secoli nell’«obsequium Fidei» (la lotta armata per la Fede) e nell’auxilium ai «viandanti del sacro», non fu perché gli Stati latini d’Oriente avevano un disperato bisogno di uomini in grado di difenderne i confini – e quando mai? – bensì per battere cassa e assecondare, abaco e spada alla mano, gli ‘ecumenistici’ disegni di potere delle ineffabili eminenze grigie del Priorato.
Se a raccontare tali fantasiosi retroscena fossero stati solo Baigent & co. o il loro epigono Dan Brown, accusato di plagio e recentemente assolto da una discussa sentenza dei giudici dell’Alta Corte di Londra, non vi sarebbe stato motivo per intervenire: “The Holy Blood and the Holy Graal” è solo un afilologico essai à thèse; quanto al “Da Vinci Code”, si tratta semplicemente di un romanzo, e, malgrado i tentativi dell’autore di insinuare dubbi sulla rispondenza a verità delle sue mirabolanti ‘rivelazioni’ (4), come tale va letto. Ma è un fatto che questo genere di long seller, girando nei circuiti ben oliati della New Age e nel planetario Barnum dell’occulto, ha dato risonanza mondiale a vecchie riciclate astruserie che, combinandosi alle tesi ‘sinarchiche’ dei complottisti a oltranza e al delirio mitopoietico di certa massoneria, hanno letteralmente strappato il capitolo templare alla Storia per consegnarlo alla più pedestre industria culturale: quella, per intenderci, che si rivolge al tipo di lettori (o, meglio, di consumatori) che, per citare ancora Eco, “mangiano di tutto, purché sia ermetico” e “dica il contrario di quel che han trovato sui libri di scuola” (5). Nel caso dei Cavalieri del Tempio, la pretesa esistenza e la conseguente ricerca di una verità ‘altra’ e ‘più vera’, incuneando nell’immaginario collettivo i vaneggiamenti di inquieti detective dell’occulto poco inclini all’uso delle fonti ed auto-esonerati da ogni dovere di prova, ha prodotto clamorose falsificazioni e sconvolto i reali connotati di una vicenda storica divenuta oggetto di entertainment e materia di fantastoria.
Quando, nel 1114, il conte Ugo di Champagne espresse la sua intenzione di entrare in questo «esercito angelico» (vi entrò, di fatto, solo nel 1226), nella Gerusalemme liberata operavano sodalizi di cavalieri che, definiti «Poveri Cavalieri di Cristo», si mettevano al servizio del Signore e, votandosi a una vita in comune, si dedicavano all’assistenza ai bisognosi, ai pellegrini e agli infermi. Intorno al 1119, la fraternitas guidata da Ugo di Payns e da Goffredo di Saint-Omer, sostenuta dal Patriarcato e dalla Corona di Gerusalemme, acquisì formale identità e, per conseguenza, maggiore visibilità, più o meno com’era accaduto allo «Xenodochium S. Joannis Hierosolymitani» (l’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme), confraternita ospitaliera esistente già da una cinquantina d’anni ma riconosciuta dalla Santa Sede solo nel febbraio del 1113 che, sotto la guida di Raymond di Puy (subentrato al fondatore Gerardo nel 1120), s’avviò a divenire la prestigiosa religio militaris che, in Terrasanta prima, a Rodi e a Malta poi, scriverà alcune delle più gloriose pagine della storia della cristianità occidentale. Si trattò, in certa misura, di due rami di un unico ceppo: un ceppo fiorito nell’epico clima della Gerusalemme crociata.
Non stupisce, quindi, che Ospitalieri e Templari, protetti dal papato e consacrati alla difesa degli Stati latini d’Oriente, ottennero il favore e il sostegno di prìncipi e sovrani, estendendo la rete dei propri insediamenti dalle regioni iberiche dell’Estremadura sino alle frontiere della Siria-Palestina. Per limitarci all’Ordine del Tempio, il cronista Matteo di Parigi arrivò a parlare, sia pure con qualche esagerazione, di oltre 9.000 manerie (fra rocche e semplici grange); ed ove si pensi al rapido sviluppo dei suoi investimenti ed al successo delle molteplici attività creditizie, non fa meraviglia un «prodigioso arricchimento» che, in quanto tale, non fu dovuto né ai presunti «ricatti» alla Chiesa né, tantomeno, alla fabbricazione del fantomatico «oro alchemico».
Quanto al ruolo di Bernardo di Clairvaux, diciamo subito che l’immagine di occulto ispiratore di sinarcoidi complotti – le immaginarie trame tanto care ai Gérard de Sède ed ai Louis Charpentier – è semplicemente farsesca, assurda e grottesca. Lungi dall’appoggiare sùbito ed entusiasticamente la nascita di una «nuova cavalleria» che un altro cistercense, Isacco di l’Étoile, ribattezzò con ironia «nuova mostruosità», Bernardo condivise i dubbi e le perplessità che tormentavano diverse personalità ecclesiali del tempo e gli stessi «Commilitoni di Cristo», ai quali un «Ugo peccator» (probabilmente Ugo di Payns) volle dedicare quel Sermo ad Milites Templi che, diretto a convincerli della legittimità delle loro scelte, tradiva tutto il peso e l’inquietudine che nelle anime di questi religiosi dovette esercitare – almeno all’inizio – l’idea del «pro dogmate armis decertare» (combattere in armi per la verità): «Ci è giunta voce», scrisse, «che alcuni di voi sono stati turbati da persone di scarso giudizio, quasi che il còmpito a cui avete consacrato le vostre vite, la difesa armata dei Cristiani contro i nemici della fede e della pace, sia cosa illecita e pericolosa, costituendo peccato o impedimento in vista di una mèta più alta». «Ciascuno», aggiunse, «riceve mercede in base ai propri còmpiti: il tetto busca la pioggia, la grandine e i turbini; ma se non vi fossero tetti, come potrebbero venire protetti i muri?». La casa da proteggere era, naturalmente, la «Chiesa di Dio», comunità la cui «pace» e il cui «ordine» si reggevano, secondo Ugo, sullo strenuo sforzo dei combattenti. Altro che lucidi e freddi esecutori di un occulto piano per dominare il mondo! Altro che impenetrabili custodi del «terribile segreto» in grado di minare l’edificio dogmatico ed istituzionale della Chiesa! Quando Bernardo seppe dell’intenzione di Ugo di Champagne di lasciare la propria terra per arruolarsi nell’Ordine del Tempio, non parlò certo da orditore di complotti: «Caeterum quod tua jocunda praesentia nobis ita nescio quo Dei est subtracta judicio…» («Non so per quale decreto divino fui privato della tua cara presenza…») si legge in una lettera del 1126, e passarono altri cinque anni perché il cistercense, convintosi della necessità di combattere con ogni mezzo «i servi di Satana», giungesse ad esortare Guglielmo, patriarca di Gerusalemme, ad «aprire viscere» della sua pietà ai «valorosi difensori della Chiesa»: i Cavalieri del Tempio. Ci vorrà tempo anche per maturare quella mistica delle «Due Spade» che, affine alla dottrina degli Yamabushi (monaci zen combattenti) ed alla via di «liberazione» descritta nella“Bhagavad Gîtâ(6), diverrà la divisa guerriera dei Templari e ne farà la più temuta forza combattente dei «Franchi» d’Outremer.   
Nella loro visione del mondo, la stessa che indurrà Bernardo a scrivere che l’uccisione del «pagano» non era un omicidio, bensì un «malicidio», la «guerra santa» contro gli «Infedeli» costituiva, infatti, un aspetto dell’intima battaglia contro le «spiritualia nequitiae in coelestibus» – i mostri della coscienza –, giacché per i Cavalieri del Tempio, asceti e combattenti, duplice era la spada da impugnare: quella materiale, a difesa della civiltà cristiana, e quella spirituale, non forgiata da mano d’uomo.
Non sorprende, quindi, che il poeta bavarese Wolfram von Eschenbach, attivo nella prima metà del XIII secolo, volle elevare i monaci-soldati a modello storico della «Cavalleria del Graal». I suoi «Templeisen» erano, infatti, impegnati in un vero e proprio certame spirituale, un certame di cui la cerca del «Santo Graal» – che per Wolfram non era il venerando Calice di cui parlò Robert de Boron – costituiva un puro e semplice simbolo, polisemico come ogni simbolo. Il «bellum sacrum» dei Templari era, in definitiva, cimento anche interiore, battaglia dello Spirito, e trovava un corrispettivo nel duplice gihâd che, sul fronte opposto, combattevano i guerrieri musulmani dei ribât. Per il resto, si trattò dello scontro fra due fondamentalismi, quello di Roma contro quello islamico, uno scontro che, malgrado il peso degli interessi politici ed economici, conservò intatte le sue valenze religiose.
I Templari, come braccio armato della Chiesa, non coltivarono mai idee ecumenistiche: il sogno dell’«Ordenstaat» (lo Stato sovrano), mutuato dai Cavalieri dell’Ospedale di S. Maria dei Teutoni, ebbe tutt’altre connotazioni, e l’alleanza che a un certo punto strinsero in Siria con gli Ismailiti dello «Shaykh al-Jabal»– il famigerato «Vecchio della Montagna» (7) – ebbe caratteri ed obiettivi puramente strategici: esattamente come quella suggellata con Ismail, Sultano di Damasco che, in conflitto con l’egiziano Al-Salih Ayyub, dovette chiamare in soccorso i potentati franchi d’Outremer. Nulla d’inconsueto sul frammentato fronte siro-palestinese.
Ciò peraltro non esclude  – è il caso di ricordarlo – che gli eroi di Gaza, Safed ed Al-Mansura, combattenti per lo più rudi e illetterati che solo le farneticazioni di un Hammer-Purgstall hanno potuto trasformare in sacerdoti dell’occulto (8), abbiano potuto coltivare in qualche isolata cerchia taluni aspetti di quella gnosi cristiana che, fondata sulla mistica del biblico Templum Salomonis, tanta confusa e fuorviante letteratura avrebbe prodotto a partire dall’Epoca dei Lumi e, in quantità industriali, nell’era della mistificazione globalizzata. Mi riferisco, qui, alle pretese ascendenze «templari» della cosiddetta Massoneria «speculativa», che, già in epoca napoleonica, come dimostra la vicenda del presunto decreto di trasmissione della Grande Maestranza attribuita a Jean-Marc Larmenius, condussero alla fabbricazione di grossolani falsi e a reciproci anatemi fra logge ed obbedienze. 
                                                                                 
                                                                                           Note
 
1)        E’ un fatto, però, che Goffredo, assumendo il titolo di «Advocatus Sancti Sepulchri» (Difensore del Santo Sepolcro) aveva dichiarato di non voler cingere una corona d’oro nel luogo in cui il Re dei re aveva cinto una corona di spine. Fu suo fratello, Baldovino di Boulogne, ad assurgere al trono di Gerusalemme.
 
2)       M. Baigent - R. Leigh - H. Lincoln, Il Santo Graal. Una catena di misteri lunga duemila anni, trad. it., Mondadori, Milano 1982-2003, pp.532-533.
 
3)        Id., pp. 530-532.
 
4)       Ricordo che nelle prime edizioni del “Da Vinci Code” era presente questa nota informativa: «Il Priorato di Sion – società segreta fondata nel 1099 – è una setta realmente esistente. Nel 1975, presso la Bibliothèque Nazionale di Parigi, sono state scoperte alcune pergamene, note come Les Dossiers Secrets, in cui si forniva l’identità di numerosi membri del Priorato, compresi sir Isaac Newton, Botticelli, Victor Hugo e Leonardo da Vinci». C’era scritto, inoltre, che «tutte le descrizioni di opere d’arte e architettoniche, di documenti e rituali segreti contenuti in questo romanzo rispecchiano la realtà». Naturalmente, giocando d’ambiguità, si premetteva che «Questo libro è un’opera di fantasia». Le citazioni sono tratte dall’edizione italiana di Mondadori.
 
5)        U. Eco, “Il pendolo di Foucalt”, Bompiani, Milano 1989, p. 209.
 
6)        Dopo aver detto, infatti, che «Nessun ideale è più alto, per un guerriero, che una guerra giusta», Krishna esorta Arjuna con queste significative parole: «l’uomo non si libera per il solo fatto di non agire, né raggiunge la perfezione con la pura ascesi (...) Compi dunque l’azione che ti è prescritta, ché l’azione vale più dell’inazione». E’ questione, qui, del «karma» dello «kshatriya»  (il guerriero).
 
7)       Colui che, stando al resoconto romanzesco di Marco Polo, veniva chiamato dai Saraceni «Aloadin», era la venerata guida della setta ismailita degli «Assassini» (dall’arabo volgare hashâshiyyîn, ossia «dediti all’hashîsh»), termine con il quale, secondo Guglielmo di Tiro, i contemporanei designavano i «Fidâ’î» del Vecchio della Montagna. Anche Burcardo, vice-dominus di Strasburgo recatosi in Outremer nel 1175, annotò che la razza di ‘Saraceni delle montagne’ che «nella lingua dei Latini» era denominata «segnors de montana», venivano chiamati dai Musulmani «Heysessini» ed avevano una pessima reputazione: vivevano «senza legge», mangiavano carne di maiale e godevano finanche delle madri e delle sorelle. Il loro signore incuteva «grandissimo terrore» ai prìncipi saraceni come ai potentati cristiani, giacché, se avesse voluto ucciderli, non sarebbero scampati al pugnale d’oro dei suoi sicari. La potente confraternita era stata fondata nell’XI secolo da Hasan al-Sabbâh, uomo di poliedrica cultura che, dopo aver consacrato gli anni della sua giovinezza allo studio delle dottrine sufi – in particolare, quella di Muwaffik al-Dîn, maestro del Khorasan –, si era stabilito ad Alamût, «nido d’aquila» ubicato a sud del Mar Caspio dal quale aveva diretto i propri seguaci. Zelante fino al fanatismo, Hasan aveva fatto uccidere i suoi stessi due figli: uno perché implicato in un omicidio, l’altro perché dedito al vino.Fu, però, Rashîd al-Dîn Sinân, carismatico capo degli Assassini di Siria, ad entrare nella leggenda. Si definiva «Signore dell’Essere», «Colui che è vicino e non si diparte», e si diceva che il suo corpo, divenuto inafferrabile durante l’assedio di Masyâf voluto da Saladino, non gettava ombra né si rifletteva nell’acqua. «Bâtinî» erano definiti gli adepti di quest’ala estrema della Shi’ia ismaelita: un’espressione che nel mondo arabo designa ancora i cultori della «scienza segreta» di Allâh. Temuti in tutto il Medio Oriente – non esitavano a praticare l’omicidio politico –, gli Assassini conobbero il loro declino solo nella seconda metà del XIII secolo, quando, caduta l’Alamût nelle mani dei Mongoli, venne meno il sostegno della casa-madre di Persia.
 
8)        Il barone austriaco Joseph von Hammer-Purgstall, che nella sua “Geschichte der Assassins aus morgenländischen Quellen”, edita a Stoccarda nel 1818, accostò i Templari ai Gesuiti, agli Illuminati e ai Massoni, in un altro lavoro pubblicato nel medesimo anno accreditò le accuse mosse loro da Filippo il Bello e giunse a sostenere che i frati, «colpevoli di apostasia, idolatria e impurità», praticavano un culto fallico ed osceni riti assimilabili a quelli degli Ofiti. Peccato che i famosi cofanetti «medievali» capitati fra le mani del duca de Blacas, con le loro fantomatiche «orge gnostiche», erano di fattura assai più tarda e, ammesso che non fossero stati fabbricati a bella posta, nulla avevano da spartire con la conversatio dei Cavalieri del Tempio. ‘Ritrovati’ dopo la pubblicazione del primo lavoro di Hammer, costituivano, infatti, delle ‘prove’ perfette.
 
 
                                                                                                                            Paolo Lopane
                                                                                                         
 
DA UNO STUDIO DELL’AUTORE GIA’ PARZIALMENTE PUBBLICATO IN “VIE DELLA TRADIZIONE”, ANNO XXXVI, N. 143 (LUGLIO-SETTEMBRE 2006)

                     

Il culto cavalleresco di Maria


Come tutti i religiosi, i Templari osservavano i voti di castità, povertà ed obbedienza. La perpetua continenza era prevista dall’art. XX della loro Regola: «Quale biancore», si legge a proposito dei candidi abiti, «se non si preserva la castità?». La purità, simboleggiata dal cordoncino con cui i frati si cingevano la vita – la «sainturete petite» –, era connessa alla fedeltà a Maria, protettrice dell’Ordine. A Lei era dedicato il mattutino. Se un Templare avesse disertato la messa, avrebbe dovuto recitare tredici Pater noster in Suo onore ed altri tredici come officio quotidiano. Così veniva appellata nella liturgia: Regina Militum, Regina Fratrum Templi, Regina Conventi ab albis stolis, Regina Sancti Ordinis Templi, Auxilium Templariorum. In una litania si ripeteva: «Nostra Signora è stata l’inizio del nostro Ordine, e in Lei e in Suo onore sarà, a Dio piacendo, la fine della nostra vita, quando Dio vorrà che ciò accada».  Arnoldo di Sournia, cavaliere di Mas Deu (Rossiglione) caduto in Terrasanta nella seconda metà del XII secolo, offrì il suo corpo e la sua anima "al Signore Iddio e alla beata Maria". Fra’ Americo della domus di Sainte-Geneviève, prigioniero a Parigi all’epoca del processo, in luogo di una memoria difensiva  compose una toccante preghiera alla Vergine: «Maria, Stella del Mare, accompagnaci al porto di salvezza...».  Giacomo di Molay, ultimo Gran Maestro del Tempio, affrontò il rogo con il viso volto a Notre-Dame-de-Paris.
Un mistico omaggio, dunque; un cavalleresco omaggio alla venerata  «Maris Stella», la «dolce» e «viva stella» che Dante, il sublime cantore della «milizia del ciel», vedrà ‘cinta’ dalla fiamma dell’«amore angelico» (Par. XXIII, vv. 91-120).
Non deve stupire che questo Fedele d’Amore, che per Robert L. John sarebbe stato affiliato al Tempio, avesse cantato con la stessa sacrale passione la sua Beatrice e la venerata «donna del ciel». La Donna, mistero inghirlandato di stelle, era stata aureolata d’azzurro nei santuari letterari di Provenza. Musa e ispiratrice di quello «joi d’amor» che, confinando con il gaudium della mistica cristiana, trasformava i passi del corteggiamento amoroso in altrettanti atti di ‘omaggio’ religioso, era stata definita «Vera Luce» da Guiraut di Borneill. Rigaut di Barbezieux, che aveva accostato l’estasi prodotta dalla visione dell’amata a quella indotta in Parsifal dalla processione del Graal, avrebbe voluto «pregare» al cospetto di lei. Non è questione, qui, di languidi sdilinguimenti. Nettata dalle convenzioni cortesi, l'invocazione della Donna ebbe, spesso, tenore liturgico, elevò l'amata a mistica agapeta; e se il vero "grazir" ("dono") dell'amie  era il suo farsi "scala per il cielo",  non fa meraviglia che il trovatore  Guiraut di Narbona, alfiere della fedeltà sacrale, giunse a cantare la Vergine nelle forme dell’amor cortese.
Il Sacro Amore è, infatti, empito di reintegrazione edenica, supremo anelito all'Unità, anche quando ha per oggetto l'umano, anche quando è fervore mistico per una creatura che, contemplata nella sua dimensione atemporale, si dilata nei cieli dello spirito sino a divenire una cosa sola con la realtà archetipica dell'amante. "Ecce Deus fortior me...!" dirà l'Alighieri nella Vita Nova, ma già nel Lancelot ou le Chevalier de la Charrette, pubblicato fra il 1176 ed il 1180, affiorava una concezione della donna che, affatto estranea a quella organica all'ordine costituito, rifletteva una spiritualità che non si spiega solo con i processi di "psichismo sociale" o con la "tensione della libido alla sublimazione" di cui ha scritto Armanda Guiducci (1): Lancillotto, "attento a non toccare" una fanciulla coricatasi al suo fianco, giunge finanche a inginocchiarsi dinanzi alla stanza della sua sovrana: "Au departir a soploié/ a la chambre, et fet tot autel/ con s'il fust devant un autel..." (2). L'amore si fa qui adorazione estatica, sentimento mistico, fatale tappa di un itinerario spirituale che può distruggere l'"amic" o donargli le ali. Pronto a sacrificare, per Ginevra, il suo stesso orgoglio di cavaliere, Lancillotto "non ha forza né difesa di fronte ad Amore", che gli è del tutto sovrano: "egli dimentica se stesso, non sa più se esista o non esista, non ricorda il proprio nome, né se è armato o meno, dove vada e donde venga; non ha memoria di nulla, se non di una sola cosa, per la quale ha dimenticato ogni altra". Indifferente agli oltraggi "perché non v'è dubbio che accresce assai il proprio merito colui che obbedisce ai comandi d'Amore", l'eroe di mille battaglie si sente mancare quando ritrova un pettine appartenuto alla regina: rimirando i "belli, chiari e luminosi" capelli rimasti impigliati, li tira fuori con tanta solenne delicatezza "da non spezzarne uno solo"; e riponendoli "accanto al cuore, tra la carne e la camicia", si sente "al riparo da ulcerazioni e da ogni altro male". "Ha tanta fiducia in quei capelli" che "non abbisogna d'altro aiuto"; giacché a "questo amore", confessa l'eroe nel Perlesvaus, "debbo tutto ciò che vi è di buono in me". E' un amore adultero, un amore angelico e dannato. Ma, come quello del Tristan, odora di incenso più che di zolfo.
Anche nel Parzival, "Bildungsroman" di Wolfram von Eschenbach, si dice di confidare "più nelle donne che in Dio"; ed è una donna, la giovane Obilote, a dire arditamente al cavaliere Galvano: "Se avrete fede in me, fortuna e forza non vi abbandoneranno" (3). Non è il buon Dio ad esser qui negletto, bensì la concezione fallica e spenta del veterotestamentario "Dio degli Eserciti".
Non vi è, in effetti, amore 'angelicato' che non riveli un'inconscia ricerca dell'eterno. Non vi è relazione amorosa che non presenti, negli istanti apicali, i tratti mistici di un rapimento estatico. Chiunque abbia conosciuto la vertigine di un'unione radicale, l'incantesimo che fa ammutolire l'anima e risuonare nel silenzio la melodia intemporale dello Spirito, sa della dimensione uranica che può assumere l'abbraccio in cui l'altro sia divenuto l'Universo. Può capire perché Parsifal - che "serbava per lei il vero amore che non vacilla" e che dirà a Galvano: "Amico, nell'ora del tuo combattere sia una donna a guidare la tua mano" - avesse accolto Condwiramurs nel suo letto senza che "le membra che conciliano amore" fossero portate dall'"uno all'altra". Opposto all'amor profano ch'era stato causa della ferita di Amfortas, l'hohe minne per Condwiramurs accompagna l'eroe nelle selve dell'anima, lo preserva dalle insidie di Orgeleuse, lo conduce per mano alla corona del Graal. Egli pensava, infatti, solo "alla sua donna","alla sua casta dolcezza. Doveva egli forse porgere a un'altra il suo saluto, offrirle per amore i suoi servigi, nutrire pensieri di incostanza? No, da un tale amore egli si guarda bene. Grande fedeltà gli ha serbato puro il cuore e la persona; in verità nessun'altra donna poteva avere il suo amore, fuor che la regina Condwiramurs, la belle fleur florissante". 
Lo stesso Titurel, che custodiva il Graal con l'aiuto dei "Templeisen", aveva trovato consolazione nel "puro amore" e nel potere della "dolce grazia": ed ove si pensi al fremito di risveglio spirituale che aveva attraversato la christianitas nella temperie delle Crociate; ove si consideri l'influenza della poesia mistica islamica e delle speculazioni gnostico-mariologiche sulla figura di Fatima nella Shi'ia ismailita, non può sorprendere che per Albrecht von Scharfenberg, l'autore  dello Jungerer Titurel, una delle principali cappelle del Graalsburg fosse sì dedicata a Maria: ma "come Sophia".


                                                                            Note

1) Cfr. A. Guiducci, Introduzione a: D. de Rougemont, "L'amore e l'Occidente. Eros morte abbandono nella letteratura europea", trad. it., Rizzoli, Milano 2006, p. 33.
2) Vv. 4716-4718. Si vedano anche i vv. 4651-4653: "... et puis vint au lit la reine / si l'aore et se li ancline /, car an nul cors saint ne croit tant" ("... ed accostatosi al letto della regina, l'adora e s'inchina come chi nulla reputi altrettanto sacro")
3) Per il "Parzival" mi sono avvalso dell'ottima traduzione di G. Bianchessi in Wolfram von Eschenbach, "Parzival", Tea, Milano 1989.
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                                                                                                                                              Paolo Lopane