Ma ecco che entrano in gioco i Templari, giacché i Templari, come scrisse causticamente Umberto Eco ne “Il Pendolo di Foucalt”, «c’entrano sempre». Caduta Gerusalemme nelle mani dei Crociati, il Priorato di Sion, ‘misteriosa’ organizzazione fondata ad Annemasse (Haute-Savoie) nel 1956 ma fatta risalire al 1099, avrebbe protetto il «terribile segreto» e tramato affinché la stirpe del «sang réal», ‘legittimamente’ assurta al trono gerosolimitano, potesse coronare i suoi sogni di supremazia sui potentati spirituali e temporali dell’universo mondo. Occorreva, a tal fine, un braccio armato, una granitica istituzione militare che, nominalmente alleata del trono e dell’altare, creasse un potente apparato economico-finanziario in grado di insinuarsi nei gangli direttivi della stratificata società medievale: la religio militaris dei Cavalieri di Cristo. «Con il tempo», scrivono Baigent & co., «se avesse consolidato la sua posizione in Palestina, la “tradizione reale” discesa da Goffredo e Baldovino avrebbe probabilmente rivelato le proprie origini. Allora il re di Gerusalemme avrebbe avuto la precedenza su tutti i sovrani d’Europa, e il patriarca di Gerusalemme avrebbe soppiantato il papa. Spodestando Roma, Gerusalemme sarebbe divenuta la vera capitale della cristianità, e forse non soltanto della cristianità. Infatti, se Gesù fosse stato riconosciuto come un profeta mortale, un re-sacerdote, legittimo sovrano della stirpe di Davide, sarebbe divenuto accettabile per i Musulmani e per gli Ebrei. Quale re di Gerusalemme, il suo discendente diretto sarebbe stato in grado di realizzare una delle dottrine fondamentali della politica dei Templari: la riconciliazione del cristianesimo con il giudaismo e con l’Islam» (2).
Lo stesso Bernardo di Clairvaux, la più carismatica figura della cristianità del tempo, sarebbe stato un uomo del Priorato. Ciò spiegherebbe l’influsso da lui esercitato sulla Regola templare e la composizione di quel vibrante panegirico sulla «nuova Cavalleria» – il “De laude Novae Militiae” – che, mistico manifesto della dottrina delle «Due Spade», il cistercense dedicò ad Ugo di Payns, il primo Gran Maestro della Milizia del Tempio. Sicché, semplici pedine nelle mani dei «governanti occulti» del mondo, i cavalieri francesi che, intorno al 1119, s’impegnarono dinanzi al patriarca di Gerusalemme a vivere «come canonici regolari» e nel contempo si votarono alla protezione dei pellegrini e alla difesa della Terrasanta, si sarebbero insediati nell’area del perduto Tempio di Salomone al solo scopo di effettuarvi degli scavi e di rintracciarvi le presunte prove del matrimonio di Gesù: prove, queste, che, utilizzate come strumento di ricatto nei confronti della Chiesa, spiegherebbero il prodigioso arricchimento dell’Ordine e i numerosi privilegi che i pontefici gli accordarono. «Non c’era dubbio», infatti, «che i Cavalieri Templari erano stati inviati in Terrasanta con l’espresso compito di scoprire o di ottenere qualcosa», e «sembra che avessero trovato ciò che dovevano cercare, e che lo portassero in Europa» (3).
Se, quindi, questi strenui combattenti si prodigarono per quasi due secoli nell’«obsequium Fidei» (la lotta armata per la Fede) e nell’auxilium ai «viandanti del sacro», non fu perché gli Stati latini d’Oriente avevano un disperato bisogno di uomini in grado di difenderne i confini – e quando mai? – bensì per battere cassa e assecondare, abaco e spada alla mano, gli ‘ecumenistici’ disegni di potere delle ineffabili eminenze grigie del Priorato.
Se a raccontare tali fantasiosi retroscena fossero stati solo Baigent & co. o il loro epigono Dan Brown, accusato di plagio e recentemente assolto da una discussa sentenza dei giudici dell’Alta Corte di Londra, non vi sarebbe stato motivo per intervenire: “The Holy Blood and the Holy Graal” è solo un afilologico essai à thèse; quanto al “Da Vinci Code”, si tratta semplicemente di un romanzo, e, malgrado i tentativi dell’autore di insinuare dubbi sulla rispondenza a verità delle sue mirabolanti ‘rivelazioni’ (4), come tale va letto. Ma è un fatto che questo genere di long seller, girando nei circuiti ben oliati della New Age e nel planetario Barnum dell’occulto, ha dato risonanza mondiale a vecchie riciclate astruserie che, combinandosi alle tesi ‘sinarchiche’ dei complottisti a oltranza e al delirio mitopoietico di certa massoneria, hanno letteralmente strappato il capitolo templare alla Storia per consegnarlo alla più pedestre industria culturale: quella, per intenderci, che si rivolge al tipo di lettori (o, meglio, di consumatori) che, per citare ancora Eco, “mangiano di tutto, purché sia ermetico” e “dica il contrario di quel che han trovato sui libri di scuola” (5). Nel caso dei Cavalieri del Tempio, la pretesa esistenza e la conseguente ricerca di una verità ‘altra’ e ‘più vera’, incuneando nell’immaginario collettivo i vaneggiamenti di inquieti detective dell’occulto poco inclini all’uso delle fonti ed auto-esonerati da ogni dovere di prova, ha prodotto clamorose falsificazioni e sconvolto i reali connotati di una vicenda storica divenuta oggetto di entertainment e materia di fantastoria.
Quando, nel 1114, il conte Ugo di Champagne espresse la sua intenzione di entrare in questo «esercito angelico» (vi entrò, di fatto, solo nel 1226), nella Gerusalemme liberata operavano sodalizi di cavalieri che, definiti «Poveri Cavalieri di Cristo», si mettevano al servizio del Signore e, votandosi a una vita in comune, si dedicavano all’assistenza ai bisognosi, ai pellegrini e agli infermi. Intorno al 1119, la fraternitas guidata da Ugo di Payns e da Goffredo di Saint-Omer, sostenuta dal Patriarcato e dalla Corona di Gerusalemme, acquisì formale identità e, per conseguenza, maggiore visibilità, più o meno com’era accaduto allo «Xenodochium S. Joannis Hierosolymitani» (l’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme), confraternita ospitaliera esistente già da una cinquantina d’anni ma riconosciuta dalla Santa Sede solo nel febbraio del 1113 che, sotto la guida di Raymond di Puy (subentrato al fondatore Gerardo nel 1120), s’avviò a divenire la prestigiosa religio militaris che, in Terrasanta prima, a Rodi e a Malta poi, scriverà alcune delle più gloriose pagine della storia della cristianità occidentale. Si trattò, in certa misura, di due rami di un unico ceppo: un ceppo fiorito nell’epico clima della Gerusalemme crociata.
Non stupisce, quindi, che Ospitalieri e Templari, protetti dal papato e consacrati alla difesa degli Stati latini d’Oriente, ottennero il favore e il sostegno di prìncipi e sovrani, estendendo la rete dei propri insediamenti dalle regioni iberiche dell’Estremadura sino alle frontiere della Siria-Palestina. Per limitarci all’Ordine del Tempio, il cronista Matteo di Parigi arrivò a parlare, sia pure con qualche esagerazione, di oltre 9.000 manerie (fra rocche e semplici grange); ed ove si pensi al rapido sviluppo dei suoi investimenti ed al successo delle molteplici attività creditizie, non fa meraviglia un «prodigioso arricchimento» che, in quanto tale, non fu dovuto né ai presunti «ricatti» alla Chiesa né, tantomeno, alla fabbricazione del fantomatico «oro alchemico».
Quanto al ruolo di Bernardo di Clairvaux, diciamo subito che l’immagine di occulto ispiratore di sinarcoidi complotti – le immaginarie trame tanto care ai Gérard de Sède ed ai Louis Charpentier – è semplicemente farsesca, assurda e grottesca. Lungi dall’appoggiare sùbito ed entusiasticamente la nascita di una «nuova cavalleria» che un altro cistercense, Isacco di l’Étoile, ribattezzò con ironia «nuova mostruosità», Bernardo condivise i dubbi e le perplessità che tormentavano diverse personalità ecclesiali del tempo e gli stessi «Commilitoni di Cristo», ai quali un «Ugo peccator» (probabilmente Ugo di Payns) volle dedicare quel Sermo ad Milites Templi che, diretto a convincerli della legittimità delle loro scelte, tradiva tutto il peso e l’inquietudine che nelle anime di questi religiosi dovette esercitare – almeno all’inizio – l’idea del «pro dogmate armis decertare» (combattere in armi per la verità): «Ci è giunta voce», scrisse, «che alcuni di voi sono stati turbati da persone di scarso giudizio, quasi che il còmpito a cui avete consacrato le vostre vite, la difesa armata dei Cristiani contro i nemici della fede e della pace, sia cosa illecita e pericolosa, costituendo peccato o impedimento in vista di una mèta più alta». «Ciascuno», aggiunse, «riceve mercede in base ai propri còmpiti: il tetto busca la pioggia, la grandine e i turbini; ma se non vi fossero tetti, come potrebbero venire protetti i muri?». La casa da proteggere era, naturalmente, la «Chiesa di Dio», comunità la cui «pace» e il cui «ordine» si reggevano, secondo Ugo, sullo strenuo sforzo dei combattenti. Altro che lucidi e freddi esecutori di un occulto piano per dominare il mondo! Altro che impenetrabili custodi del «terribile segreto» in grado di minare l’edificio dogmatico ed istituzionale della Chiesa! Quando Bernardo seppe dell’intenzione di Ugo di Champagne di lasciare la propria terra per arruolarsi nell’Ordine del Tempio, non parlò certo da orditore di complotti: «Caeterum quod tua jocunda praesentia nobis ita nescio quo Dei est subtracta judicio…» («Non so per quale decreto divino fui privato della tua cara presenza…») si legge in una lettera del 1126, e passarono altri cinque anni perché il cistercense, convintosi della necessità di combattere con ogni mezzo «i servi di Satana», giungesse ad esortare Guglielmo, patriarca di Gerusalemme, ad «aprire viscere» della sua pietà ai «valorosi difensori della Chiesa»: i Cavalieri del Tempio. Ci vorrà tempo anche per maturare quella mistica delle «Due Spade» che, affine alla dottrina degli Yamabushi (monaci zen combattenti) ed alla via di «liberazione» descritta nella“Bhagavad Gîtâ”(6), diverrà la divisa guerriera dei Templari e ne farà la più temuta forza combattente dei «Franchi» d’Outremer.
Nella loro visione del mondo, la stessa che indurrà Bernardo a scrivere che l’uccisione del «pagano» non era un omicidio, bensì un «malicidio», la «guerra santa» contro gli «Infedeli» costituiva, infatti, un aspetto dell’intima battaglia contro le «spiritualia nequitiae in coelestibus» – i mostri della coscienza –, giacché per i Cavalieri del Tempio, asceti e combattenti, duplice era la spada da impugnare: quella materiale, a difesa della civiltà cristiana, e quella spirituale, non forgiata da mano d’uomo.
Non sorprende, quindi, che il poeta bavarese Wolfram von Eschenbach, attivo nella prima metà del XIII secolo, volle elevare i monaci-soldati a modello storico della «Cavalleria del Graal». I suoi «Templeisen» erano, infatti, impegnati in un vero e proprio certame spirituale, un certame di cui la cerca del «Santo Graal» – che per Wolfram non era il venerando Calice di cui parlò Robert de Boron – costituiva un puro e semplice simbolo, polisemico come ogni simbolo. Il «bellum sacrum» dei Templari era, in definitiva, cimento anche interiore, battaglia dello Spirito, e trovava un corrispettivo nel duplice gihâd che, sul fronte opposto, combattevano i guerrieri musulmani dei ribât. Per il resto, si trattò dello scontro fra due fondamentalismi, quello di Roma contro quello islamico, uno scontro che, malgrado il peso degli interessi politici ed economici, conservò intatte le sue valenze religiose.
I Templari, come braccio armato della Chiesa, non coltivarono mai idee ecumenistiche: il sogno dell’«Ordenstaat» (lo Stato sovrano), mutuato dai Cavalieri dell’Ospedale di S. Maria dei Teutoni, ebbe tutt’altre connotazioni, e l’alleanza che a un certo punto strinsero in Siria con gli Ismailiti dello «Shaykh al-Jabal»– il famigerato «Vecchio della Montagna» (7) – ebbe caratteri ed obiettivi puramente strategici: esattamente come quella suggellata con Ismail, Sultano di Damasco che, in conflitto con l’egiziano Al-Salih Ayyub, dovette chiamare in soccorso i potentati franchi d’Outremer. Nulla d’inconsueto sul frammentato fronte siro-palestinese.
Ciò peraltro non esclude – è il caso di ricordarlo – che gli eroi di Gaza, Safed ed Al-Mansura, combattenti per lo più rudi e illetterati che solo le farneticazioni di un Hammer-Purgstall hanno potuto trasformare in sacerdoti dell’occulto (8), abbiano potuto coltivare in qualche isolata cerchia taluni aspetti di quella gnosi cristiana che, fondata sulla mistica del biblico Templum Salomonis, tanta confusa e fuorviante letteratura avrebbe prodotto a partire dall’Epoca dei Lumi e, in quantità industriali, nell’era della mistificazione globalizzata. Mi riferisco, qui, alle pretese ascendenze «templari» della cosiddetta Massoneria «speculativa», che, già in epoca napoleonica, come dimostra la vicenda del presunto decreto di trasmissione della Grande Maestranza attribuita a Jean-Marc Larmenius, condussero alla fabbricazione di grossolani falsi e a reciproci anatemi fra logge ed obbedienze.
Note
1) E’ un fatto, però, che Goffredo, assumendo il titolo di «Advocatus Sancti Sepulchri» (Difensore del Santo Sepolcro) aveva dichiarato di non voler cingere una corona d’oro nel luogo in cui il Re dei re aveva cinto una corona di spine. Fu suo fratello, Baldovino di Boulogne, ad assurgere al trono di Gerusalemme.
2) M. Baigent - R. Leigh - H. Lincoln, Il Santo Graal. Una catena di misteri lunga duemila anni, trad. it., Mondadori, Milano 1982-2003, pp.532-533.
3) Id., pp. 530-532.
4) Ricordo che nelle prime edizioni del “Da Vinci Code” era presente questa nota informativa: «Il Priorato di Sion – società segreta fondata nel 1099 – è una setta realmente esistente. Nel 1975, presso la Bibliothèque Nazionale di Parigi, sono state scoperte alcune pergamene, note come Les Dossiers Secrets, in cui si forniva l’identità di numerosi membri del Priorato, compresi sir Isaac Newton, Botticelli, Victor Hugo e Leonardo da Vinci». C’era scritto, inoltre, che «tutte le descrizioni di opere d’arte e architettoniche, di documenti e rituali segreti contenuti in questo romanzo rispecchiano la realtà». Naturalmente, giocando d’ambiguità, si premetteva che «Questo libro è un’opera di fantasia». Le citazioni sono tratte dall’edizione italiana di Mondadori.
5) U. Eco, “Il pendolo di Foucalt”, Bompiani, Milano 1989, p. 209.
6) Dopo aver detto, infatti, che «Nessun ideale è più alto, per un guerriero, che una guerra giusta», Krishna esorta Arjuna con queste significative parole: «l’uomo non si libera per il solo fatto di non agire, né raggiunge la perfezione con la pura ascesi (...) Compi dunque l’azione che ti è prescritta, ché l’azione vale più dell’inazione». E’ questione, qui, del «karma» dello «kshatriya» (il guerriero).
7) Colui che, stando al resoconto romanzesco di Marco Polo, veniva chiamato dai Saraceni «Aloadin», era la venerata guida della setta ismailita degli «Assassini» (dall’arabo volgare hashâshiyyîn, ossia «dediti all’hashîsh»), termine con il quale, secondo Guglielmo di Tiro, i contemporanei designavano i «Fidâ’î» del Vecchio della Montagna. Anche Burcardo, vice-dominus di Strasburgo recatosi in Outremer nel 1175, annotò che la razza di ‘Saraceni delle montagne’ che «nella lingua dei Latini» era denominata «segnors de montana», venivano chiamati dai Musulmani «Heysessini» ed avevano una pessima reputazione: vivevano «senza legge», mangiavano carne di maiale e godevano finanche delle madri e delle sorelle. Il loro signore incuteva «grandissimo terrore» ai prìncipi saraceni come ai potentati cristiani, giacché, se avesse voluto ucciderli, non sarebbero scampati al pugnale d’oro dei suoi sicari. La potente confraternita era stata fondata nell’XI secolo da Hasan al-Sabbâh, uomo di poliedrica cultura che, dopo aver consacrato gli anni della sua giovinezza allo studio delle dottrine sufi – in particolare, quella di Muwaffik al-Dîn, maestro del Khorasan –, si era stabilito ad Alamût, «nido d’aquila» ubicato a sud del Mar Caspio dal quale aveva diretto i propri seguaci. Zelante fino al fanatismo, Hasan aveva fatto uccidere i suoi stessi due figli: uno perché implicato in un omicidio, l’altro perché dedito al vino.Fu, però, Rashîd al-Dîn Sinân, carismatico capo degli Assassini di Siria, ad entrare nella leggenda. Si definiva «Signore dell’Essere», «Colui che è vicino e non si diparte», e si diceva che il suo corpo, divenuto inafferrabile durante l’assedio di Masyâf voluto da Saladino, non gettava ombra né si rifletteva nell’acqua. «Bâtinî» erano definiti gli adepti di quest’ala estrema della Shi’ia ismaelita: un’espressione che nel mondo arabo designa ancora i cultori della «scienza segreta» di Allâh. Temuti in tutto il Medio Oriente – non esitavano a praticare l’omicidio politico –, gli Assassini conobbero il loro declino solo nella seconda metà del XIII secolo, quando, caduta l’Alamût nelle mani dei Mongoli, venne meno il sostegno della casa-madre di Persia.
8) Il barone austriaco Joseph von Hammer-Purgstall, che nella sua “Geschichte der Assassins aus morgenländischen Quellen”, edita a Stoccarda nel 1818, accostò i Templari ai Gesuiti, agli Illuminati e ai Massoni, in un altro lavoro pubblicato nel medesimo anno accreditò le accuse mosse loro da Filippo il Bello e giunse a sostenere che i frati, «colpevoli di apostasia, idolatria e impurità», praticavano un culto fallico ed osceni riti assimilabili a quelli degli Ofiti. Peccato che i famosi cofanetti «medievali» capitati fra le mani del duca de Blacas, con le loro fantomatiche «orge gnostiche», erano di fattura assai più tarda e, ammesso che non fossero stati fabbricati a bella posta, nulla avevano da spartire con la conversatio dei Cavalieri del Tempio. ‘Ritrovati’ dopo la pubblicazione del primo lavoro di Hammer, costituivano, infatti, delle ‘prove’ perfette.
Paolo Lopane
DA UNO STUDIO DELL’AUTORE GIA’ PARZIALMENTE PUBBLICATO IN “VIE DELLA TRADIZIONE”, ANNO XXXVI, N. 143 (LUGLIO-SETTEMBRE 2006)