Contributi storiografici 2

- Hrand Nazariantz, Troviero d'Armenia

Una moneta seicentesca dal Palazzo Vescovile di Bitetto

- Santuario di Sovereto (Terlizzi-Bari). Una croce giovannita 

- Celestino V e il «Gran Rifiuto»

 

 

Hrand Nazariantz, Troviero d'Armenia

 


«Chi non sappia vedere oltre il velo,
più o meno fitto, delle parole,
rimane nel freddo della cenere verbale,
non si accende al divino fuoco,
piccolo o grande,
dell’ispirazione creatrice»
(E. Pappacena, “… Per il nostro tempo”, 1959)
 
Era la primavera del 1913 quando il poeta armeno Hrand Nazariantz trovò rifugio e accoglienza in terra di Puglia. Quattro anni prima, nel 1909, la rivoluzione dei Giovani Turchi aveva posto fine al dispotico regime di Abdul Hamid II (1842-1918), il famigerato «Sultano Rosso», l’uomo che, opponendo la sua intransigente politica panislamica agli irredentismi nazionali dell’Impero, tra il 1895 e il 1897 aveva cagionato lo sterminio di decine di migliaia di Armeni. La costituzione da lui promulgata nel 1876, una costituzione liberale che, concessa a vent’anni dalla fine della guerra di Crimea (1853-56), risentiva della penetrazione nel Bosforo dei capitali occidentali, era stata di fatto abrogata sùbito dopo la disastrosa guerra russo-turca (1877-78), guerra che, ampliando gli Stati balcanici a spese dell’agonizzante sultanato ottomano, aveva esaltato il panslavismo filorusso e segnato l’inizio della dissoluzione dell’Impero. L’ispiratore della costituzione, Midhat Pascià, venne esiliato e poi ucciso in Arabia. Il parlamento non fu più convocato.
Ma il partito dei Giovani Turchi, nato dalla fusione del comitato «Ittihàt ve Terràki» («Unione e Progresso») con la società segreta fondata a Damasco dal generale Mustafa Kemal – più noto, in sèguito, come Atatürk (il «Padre dei Turchi») –, si rivelò non meno feroce del brutale regime hamidiano nella repressione dell’irredentismo armeno. Malgrado, infatti, i suoi proclami liberali, questo movimento nazionalista che, pure, aveva propugnato l’idea di una federazione dei popoli dell’Impero e puntato il dito contro un arcaico ordinamento che ai sangiaccati (articolazioni dell’apparato centrale) affiancava vassalli autonomi ed organismi tribali uniti nel segno della Sharî’a, si macchiò del primo genocidio del XX secolo, quello che ancora oggi, a dispetto delle loro ambizioni europeistiche, i governi turchi si ostinano a negare: il «Metz Jeghèrn», il «Grande Male» del popolo armeno.
Quando, infatti, il rombo dei cannoni della Grande Guerra coprì l’eco delle vicende interne dell’Impero assordando le coscienze dei popoli, l’odio per gli irredentisti armeni, accusati di attività filorussa e considerati una spina nel fianco del vacillante gigante ottomano, dettò al governo dei Giovani Turchi un piano di sistematico annientamento della minoranza armena che, sinistro preludio ad altri e più noti olocausti, vedrà quasi un milione e mezzo di Armeni massacrati o lasciati morire di stenti durante le deportazioni di massa. Il più noto e documentato episodio di resistenza fu quello descritto da Franz Werfel ne “I 40 giorni del Mussa Dagh”, un Monte di Mosè dove, tra il 21 luglio e il 12 settembre 1915, circa cinquemila Armeni si arroccarono a difesa della vita e della libertà. Altre drammatiche pagine di resistenza furono scritte ad Urfa (dove un migliaio di Armeni arresisi per i bombardamenti vennero barbaramente trucidati) e, soprattutto, in Cilicia e nella regione di Monche e Sassun; ma, per il resto, si trattò dello sterminio di una popolazione inerme che, a partire dal 24 aprile 1915, quando 2345 notabili armeni di Costantinopoli (tra i quali il poeta Daniel Varujan e il parlamentare Krikor Zohrab) furono deportati in massa verso l’interno dell’Anatolia, conoscerà le efferate operazioni di pulizia etnica della famigerata «Organizzazione speciale» (struttura paramilitare creata dai Giovani Turchi) e dei «tchèté», bande di delinquenti comuni scarcerati, addestrati ed impiegati nelle carneficine.
Tantissimi furono gli Armeni condotti in Siria-Mesopotamia e fatti morire di fame e sete durante la marcia nel deserto di Deir ez-Zor. Quanto agli altri, furono soppressi nei modi più atroci, spesso lapidati per risparmiare le munizioni. «Ho visto con i miei occhi cadaveri di Armeni galleggiare nelle acque dell’Eufrate o giacere abbandonati nelle steppe», scriverà un testimone neutrale dei fatti (1); e, «nei cortili adiacenti e prospicienti ai nostri edifici scolastici», riferirono gli insegnanti tedeschi di Aleppo al Ministero degli Affari Esteri di Germania, «fanciulle, fanciulli e donne, tutti in uno stato di seminudità, giacciono per terra rendendo l’ultimo respiro fra gli altri morenti…» (2). Era l’8 ottobre 1915. Ventiquattro anni dopo, nell’agosto del 1939, Adolf Hitler dirà ai suoi generali: «Chi parla ancora, oggi, dello sterminio degli Armeni?». Il resto – Auschwitz, Mauthausen, Treblinka – è storia nota.
Pulizia etnica, dunque, non efferati episodi di una sanguinosa «guerra civile»; uno spaventoso genocidio che, perpetrato in nome dell’omogeneità etnico-religiosa e della rifondazione su basi nazionalistiche (panturchistico-turaniche) dello Stato turco, condurrà a quella diaspora armena che, riflessa nell’esperienza umana, culturale ed artistica dei tanti intellettuali che trovarono rifugio in Occidente (soprattutto in Francia), portò fuori dai confini patrî ben due milioni di Armeni.  
 
«Tu sapessi, fratello, come è triste /
 l’essere soli al mondo, /
 soli vivere e senza focolare, /
 non sapere ove poggiar la testa /
 e volgere la propria tristezza /
 verso i silenzi di Dio, camminare /
 stancamente senza posa, ovunque estranei, / 
(…)  ovunque esiliati, / 
sapendo vana ogni ribellione /
 e vana ogni preghiera, /
 senza pace, senza destino…
 (…) E cantare nella dignità della propria pena, /
 cantare per l’Infinito, cantare per le Stelle, /
 senza chiedere agli uomini ascoltazione…» (3).
 
Sono versi di Hrand Nazariantz, il cantore dell’«Arménie martyre», il «Poeta cosmogonico» che, candidato al premio Nobel nel 1953 per “Il Grande Canto della Cosmica Tragedia” (1946), elevò a dolente metafora esistenziale la tragedia del suo popolo.
Figlio di Diran e di Aznive Merhametgiam, Hrand era nato ad Uskudar, sobborgo di Costantinopoli, l’8 gennaio 1886. Suo padre, membro dell’Assemblea nazionale armena e facoltoso industriale del settore tessile, lo fece studiare nel prestigioso Collegio Bérbérian della capitale turca e, quindi, a Londra e poi a Parigi, dove, nel 1905, Hrand si iscrisse alla Sorbona. Due anni dopo, le cattive condizioni di salute del genitore lo costrinsero a ritornare in patria, dove, prese le redini della fiorente impresa di famiglia, il poeta avviò un’intensa attività di pubblicista e critico letterario dirigendo il giornale “Surhantag” e collaborando a riviste quali “Nor Hossank” (da lui fondata nel 1909 con un dirigente del Partito Social-Democratico Armeno, Karekin Gozikian (4)), “Azatamart”, “Hay Grakanutiwn”, “Šant’” e “Massis”  (5). Quest’ultima, in particolare, ospitò diversi suoi studi e traduzioni di autori stranieri quali Henrik Ibsen, Maksim Gor’kij, Ada Negri e Grazia Deledda, già affermatasi sulla scena internazionale con Elias Portolu (1903). Su “Šant’” e “Hay Grakanutiwn”, tra il 1911 e il 1913, Nazariantz volle dar spazio agli esponenti della corrente simbolista italiana: tra loro, il poeta d’estrazione crepuscolare Libero Altomare e, soprattutto, Enrico Cardile e Gian Pietro Lucini, poeti-scrittori con i quali, affratellato dal culto della «misteriosa Iside simbolista» (6), l’Armeno strinse fecondi rapporti di collaborazione e d’amicizia. Fu, però, soprattutto su “Pagin”, rivista dalla vita assai breve, che il giovane poeta, autore della raccolta simbolista “I Sogni crocefissi” (1912), rivolse il suo sguardo ad una corrente letteraria che, come ha osservato Mara Filippozzi Zorzi, era stata «già individuata e teorizzata dal Lucini» e «poi rivalutata da Glauco Viazzi che ne precisò maggiormente le caratteristiche proprie riconoscendo nello stesso Lucini il suo capofila» (7).
Lucini, il «fantastico cigno lohengreniano» di cui scrisse Nazariantz ne “I Tre Canti de la Promessa” (1916), nelle “Armonie sinfoniche” (1895) aveva sperimentato il verso libero e si era aperto a quella concezione ‘gnostica’ del simbolismo che gli farà dire, in “Prose e canzoni amare”, che «Il Poeta deve intendere la ragione del verso come i Rosa-Croce l’ordine del cosmos, istituito sopra una grande armonica diffusa nell’immenso equilibrio». Ben dirà il Viazzi che per Lucini il simbolismo fu, prima di ogni altra cosa, «movimento di conoscenza e di azione»: l’autore de “La Gnosi del Melibeo” (alter-ego luciniano) avrebbe infatti scritto ne “Li Alchimisti” che «cerchiam sempre e ancor brucia la sete/ dell’or che l’alambicco non appaga» (8).
Quanto al Cardile, l’enigmatico «Rabbi Eli Drac» dell’«Allocuzione estetico-ermetica» introduttiva a “Il Grande Canto della Cosmica Tragedia”, si inserì anch’egli fra gli «artieri dello Inverosimile» intenti a creare «i ponti sinfonici che ci congiungeranno all’Infinito» (9). Collocato dal Viazzi fra i poeti «mistici, orfici, esoterici», fu lui il fedele traduttore di Nazariantz, giacché, scrisse in merito al Bardo dal «tempestoso esilio» e dalla «gloriosa solitudine», «è necessario che un poeta venga tradotto da un altro poeta, da un’anima che accolga le risonanze di quelle armonie come una conca sonora capace di ripercuoterle» (10). Naturalmente, pur fieramente teso ad un personale itinerario di ricerca, seguì, parimenti, le orme dei mostri sacri transalpini che frequentavano i «martedì letterari» di Stéphane Mallarmé coltivando l’idea dell’atto poetico quale magico strumento d’unione fra il mondo reale e l’ideale. Anelando, infatti, alla «conquista dell’Arte Assoluta», Cardile considerava il celebre poeta francese – «il musicista del silenzio, la voce sibillina che insegna l’evocazione delle cose senza nominarle» (11) – un profeta-cantore della Parola e, come Rimbaud, un «alchimista del Verbo».
Di fatto, la punteggiatura libera, lo stravolgimento sintattico-tipografico dei suoi testi rappresentarono, per Mallarmé, un tentativo di elevare la parola a Suono ed il verso a Musica: uno sforzo di trasfigurazione, quindi, della trama disanimata delle cose, tema caro tanto a Villiers de l’Isle-Adam quanto a quel Joséphin Péladan che, fondatore nel 1890 dell’«Ordine cattolico della Rosacroce, del Tempio e del Graal», sosteneva che l’artista è «un cavaliere in armatura, impegnato nella cerca simbolica del Santo Graal», e, con l’intento di «rovinare il realismo, riformare il gusto latino e creare una scuola d’arte idealista», organizzò la serie annuale di mostre pittoriche nota come «Salons de la Rose+Croix» (12).
Cardile, studioso del Péladan ed erede spirituale del Lucini, nell’introduzione all’edizione italiana de “I Sogni crocefissi” (1916) parlò del tentativo di «plasmare l’Idea, di evocare il Sogno, di concretizzare l’Allusione», giacché «ogni ritmo», scrisse, «è per noi un ritorno, un suscitatore; quell’attimo armonico disvela per noi un bagliore del mondo sconosciuto, e perciò lo stato più opportuno alla creazione è l’estasi. Il processo per il quale si sviluppa è un processo magico. La nostra poesia palpita come il cuore del veggente che attende l’apparizione (…). Siamo capaci a suscitare le orchestre per le quali si articola l’Inesprimibile. MUSICA: ecco la nostra tremenda e assoluta capacità» (13). «Dobbiamo costruire un nuovo Tempio», gli aveva scritto Nazariantz il 10 luglio 1912: «la linea dell’edificio si profila già nelle nostre anime, e noi intendiamo il suono degli organi tocchi dalle invisibili mani del Mistero» (14).
Più di quarant’anni dopo, in una rivista diretta a lungo dall’Armeno – “Graal” –  Costantino Savonarola avrebbe scritto che non si trattava di evadere dalla realtà attraverso i meandri dell’irrazionale «in cerca di ‘polvere astrale’»: «Schemi poetici, concentrazione chimica di simboli, dissolvenze, nebulosità, sono tutti elementi che concorrono a produrre quell’arte ermetica o magica, che non esprime le istanze vive degli uomini, ma quelle di alcuni ultraraffinati…» (15).
Non sorprende che nei cinque canti del poemetto “Lo Specchio”(1920), opera il cui titolo rimanda ad un mito magico ricorrente nella poetica simbolista italiana, Nazariantz avesse definito «intimamente mistico e talvolta follemente pagano» il suo «dramma d’amore e di mistero»; né può stupire che, nel secondo dei “Tre Canti de la Promessa”, dedicato al fraterno amico Lucini, scriverà che «abbiamo illuminato il Gesù de le nostre anime, che martirizzava il nostro pensiero con le spine del suo supplizio»:
 
«… E fra l’Uomo e la Divinità, /
fra la Terra e le Stelle, /
Noi restiamo per sempre sospesi /
 dardi spietatamente lanciati /
su l’ultimo e supremo equilibrio de le nostre ali /
(De nos ailes sans plumes, o Stéphane?…) / 
fiorite ne l’Amore – e per l’Amore...» (16)
 
Di fatto, questo Aedo del Verbo che dall’estetica simbolista dei primi anni si sarebbe aperto, come ha osservato Krikor Beledian, ad una «poétique post-symbolique d’ésotérisme incantatoire» (17), si era vigorosamente inserito nel dibattito culturale del suo tempo con una penna che – «più pura della spada», secondo Cardile –  «non cessò mai di combattere per la causa santa» della sua Armenia, e, mescolando scespirianamente l’inchiostro alle lacrime (18), aveva saputo trasporre, trasfigurandola, una lacerante vicenda personale nel dramma universale dell’esilio dell’Uomo. La sua opera, scrisse un critico contemporaneo, Cesarino Giardini, «rifugge», infatti, «da un gretto individualismo, assalta la sfinge eternale e, sdegnando le strade su cui zoppicano le filosofie umane con i castelli di carta dei loro sistemi, apre l’ale onnipotenti del canto verso l’armonia immortale dei cieli» (19). «Ogni illuminazione», aveva scritto Nazariantz, va pagata «con una goccia (…) del proprio sangue» (20).
Rifugiatosi nel Consolato italiano per sfuggire alle condanne a morte, nel febbraio del 1913 il Poeta sposò una donna di Casamassima, Maddalena De Cosmis, per abbandonare, infine, il Bosforo e lo «stanco singhiozzo» del suo «gemente azzurro». Nel maggio di quello stesso anno, scrivendo all’amico «Atrušan» (Padre Eremean, del Monastero veneziano di S. Lazzaro), l’Armeno espresse il suo desiderio di stabilirsi definitivamente nella «bella» Italia, che, a suo dire, era il luogo ideale per un poeta: «… avevi ragione quando dicevi che un poeta non può vivere che in Italia».  Ospite per quasi dieci lustri del nostro paese, fissò la sua residenza a Bari, «Bianca Città eletta», scrisse, «dal mio dolore errante».
Fu da questa terra di frontiera, sospesa fra Oriente ed Occidente, che il poeta armeno assisté impotente alla tragedia del suo popolo. Inutili si rivelarono le testimonianze degli scampati ai massacri e del pugno di coraggiosi che, denunziando le atrocità che si perpetravano sotto i loro occhi, urlarono il loro sdegno per l’indifferenza delle potenze liberali europee. «Quando si tratta», scrissero gli insegnanti tedeschi di Aleppo, «di migliaia di derelitti, di donne e di bambini infelici, che vengono tratti ad una morte certa per fame, le parole «opportun» e «Kompetenzverträge» non debbono più avere alcun significato» (21).
Il 27 luglio 1939, dalle colonne de “Il Resto del Carlino” Cardile osservò amaramente che «E’ inutile continuare a bussare alle porte delle nazioni democratiche, lo hanno ben compreso i pionieri della libera Armenia». Ed è forse per questo che Nazariantz, finito nel mirino dell’O.V.R.A. (la polizia segreta fascista) per le sue «vaghe aspirazioni umanitarie» ed i suoi rapporti di amicizia con «noti esponenti dei vecchi gruppi democratici e sovversivi» (22), nelle “Odi Italiche” aveva avuto accenti filofascisti (23). Di certo, «ex massone» considerato vicino al Regime, in una lettera del 1945 avrebbe scritto che «I grandi veri artisti servono unicamente sé stessi; sono veri esseri liberi; non hanno mai cercato di interpretare o esprimere il loro tempo come una certa stolta critica fascista voleva pretendere» (24). Del resto, in una riservata del 23 gennaio 1929 indirizzata dalla Prefettura di Bari al Ministero dell’Interno, si ribadisce che Nazariantz, «capo del gruppo dei suoi connazionali» residenti nel capoluogo pugliese, era «sottoposto ad oculata vigilanza per contatti ed atteggiamenti non perfettamente chiari» (25).
Sconvolto, ad ogni modo, dal diluvio di sangue che stava annegando la sua martoriata nazione, il poeta diede vita ad un Comitato per la difesa degli Armeni e si prodigò per la fondazione di un attrezzato campo profughi – il villaggio “Nor Arax” di Bari – che, creato nel 1926 ed allestito grazie ai buoni uffici del conte Umberto Zanotti-Bianco (fondatore dell’A.N.I.M.I.) e del ministro Luigi Luttazzi, avrebbe accolto un centinaio di connazionali in fuga dal «regno del Caso» e «del Sangue» su cui «vigila la Follia» (26).
Il “Nor Arax” – padiglioni in legno e cemento ed un edificio in muratura da adibire ad asilo e scuola elementare – vide incubare l’idea di una rivista, “Graal”, che, pur con edizioni irregolari e vita breve (le pubblicazioni iniziarono nel 1946), conobbe le prestigiose firme di Albert Schneeberger, Malcolm Maclaren, Maurice Gauchez ed Italo Calvino. Il nome di questo periodico di «arte e pensiero» - palese riferimento al mistico Calice assurto ad emblema della misteriosofia cristiana - fu scelto da Enrico Pappacena, grande orientalista dell’Università di Bari che, intimo amico del Nazariantz, partecipò attivamente alla fondazione della rivista:
«Verso la fine del 1945, un gruppo di amici, presieduto dal poeta armeno Hrand Nazariantz, si riunì nel Villaggio Armeno, Nor Arax, di Bari, per creare una Rivista con finalità altamente spirituale. Io ne suggerii il titolo, che fu unanimamente accettato: Graal, e stesi i seguenti appelli: 
“L’amaro linguaggio, con cui generalmente si deplora la decadenza del secolo, l’abiezione delle anime, il materialismo dilagante, nasconde fame di verità e un desiderio di serenità meditativa e operosa; rinvigoritrice e costruttiva.
Graal vuol raccogliere le pagine di quanti, coscienti della necessità dell’ora, sentono la loro responsabilità di fronte ai Fratelli uomini, ed offrire, in una comune elevazione, il meglio della loro Arte e del loro pensiero fecondatore. La Rivista, perciò, contribuendo a creare un’atmosfera di fruttuoso raccoglimento, vuol preparare gli uomini a stabilire fra loro un nuovo Patto di Amore e instaurare quella sincera e fattiva fraternità che è indispensabile presupposto per la creazione di una Civiltà nuova. Tale programma esclude ogni ideologia architettata per sostenere parziali interessi sociali e segrete o palesi passioni individuali; offre però possibilità di collaborazione a scrittori seguaci di qualsiasi dottrina o qualsiasi confessione – maturi o giovani -, purché animati dal sincero proposito di giovare alla formazione di una Superiore Coscienza.
Graal non è quindi l’espressione di una delle tante sette o conventicole, né un circolo chiuso, ma farà di tutto per divenire sempre più una fonte inesauribile di poesia e di fede.
 E’ tempo che gli uomini liberi di tutto il mondo si uniscano ed escano dal triste chiuso delle loro aspirazioni, affine di gettare, coraggiosamente e lietamente, le basi per una onesta e reciproca intesa fra popoli di ogni paese e di ogni costume» (27).
Quasi sei anni più tardi, nella primavera del 1951, dai locali del caffè “Il Sottano” di Bari fu lanciato un nuovo vibrante appello dai trentuno firmatari del “Manifesto Graalico”, poeti e scrittori che, uniti nello spirito di “Graal”, propugnavano la concezione dell’atto creativo quale frutto di un «cammino di sacrificio e dedizione» e, quindi, di sofferta palingenesi:
 «I Graalici identificano la vita del Poeta con la sua Arte e perciò ritengono che un’opera grande e pura non può sorgere che da un’anima grande e pura. Chi crea per l’effimero soggiace all’effimero. Il vero Poeta si distingue perché la sua vita è il migliore dei suoi poemi» (28).
«Apostoli» e «confessori» di «quella grande religione che è la Poesia», questi letterati auspicavano, quindi, un’Arte «estranea all’ambizione e alla speculazione» che, non più «ornamento dello spirito sulla povertà del cuore», sapesse «ferire segretamente i cuori col ferro rovente della Bellezza» ed «offrire agli uomini, che hanno bevuto le amarezze del mondo», «una speranza di Liberazione sopra le rovine» (29). 
Qualche anno più tardi, malgrado le difficoltà economiche che lo perseguitarono sino alla fine dei suoi giorni, Nazariantz tentò di far rinascere “Graal” dalle sue ceneri, fondando una rivista, “Graalismo”, che, sotto la sua direzione artistico-letteraria, illuminò il panorama culturale italiano dal gennaio del 1958 al dicembre del 1959. Deprecando, sulla scia del Verlaine («…Et tout le reste est littérature»), la decadenza di un termine che era stato «oggetto del rispetto universale non meno che le parole Tradizione e Civiltà» - il termine  letteratura -, l’Armeno volle qui esprimere tutto il suo «disdegno per l’arte-gioco e i suoi arzigogoli vani», il suo disprezzo per il «cerebralismo sterile», il suo rifiuto dei «meri fabbricanti di orpelli e meri giocolieri della parola». «Se ci rifacciamo alla saggezza d’Oriente», scrisse nel primo numero della rivista, «possiamo rilevare che l’ammassare parole soltanto per amore delle parole, è inseguire ed accarezzare il vento», «restare all’estremo prigionieri del Cerchio dell’illusione». «Se ci rifacciamo alla sapienza cristiana, possiamo rilevare che la Parola è (…) il dono di un Dio infinitamente saggio e buono; e che l’usarla in modi inconsistenti e vacui, sul piano di un arido formalismo vanitoso, è un profanare un dono divino, svuotandolo di saggezza di bontà, di apporti conoscitivi, di ogni giustificazione noetica. Basta dunque con le bravure formali, basta con i giochi verbali. Sia, la Letteratura, espressione di civiltà, di sostanziose esperienze, di giusti intenti comunicativi, anche quando non è espressione di poetico genio; e meriti di essere, come in tempi più tradizionali, almeno rispettata, anche quando non merita di essere con più ammirazione venerata» (30).
Stanco, evolianamente ‘differenziato’, lacerato dall’amara condizione di esule e sospeso nel suo limbo esistenziale fra cielo e terra, Nazariantz aveva perduto qualche anno prima anche l’amico e «fratello» Cardile, morto nella sua Sicilia, a Siracusa, nel 1951. Nel “Testamento di Hur Hayran”, l’alter-ego del poeta armeno, così gli si era rivolto:
 
 
«Io sparirò una Sera, o Enrico, /
 tra il delitto di Nascere e la gioia del Morire /
ma a Te, Rabbi e Mago, legherò l’implacabile /
inconsolabile Consolazione /
dell’ultimo secreto del mondo assassinato, /
oltre l’Arte, oltre Dio stesso, /
superata qualsiasi frontiera, /
segnata dal Destino, /
che Ti consacrerà Dio al di là di Dio stesso…» (31)
 
 
Quasi una risposta questi commossi versi del Cardile, pubblicati postumi nell’estate del 1959:
 
 

«Ti volevo vicino /

per la fine dei Tempi, /

Nazariantz: /

Quale piovra mostruosa /

allunga ora il suo tentacolo dall’Abisso, /

onde afferrare /

il tuo soffice cuore? /

(…) Vagano i nostri Simboli nell’Ombra /

e si disperde /

l’incanto delle nostre parole /

(…) Ma se tu taci, l’altra parola /

da Chi sarà mai raccolta?…»(32).

 

Ricoverato nell’ospedale di Conversano (storica cittadina nei pressi di Bari), il Poeta, ormai ultrasettantenne, risorgerà a nuova vita grazie alla venerante amicizia di un gruppo di giovani universitari, che, fondatori della locale Università Popolare, nel 1959 ne fecero il presidente onorario.
Questo il toccante ricordo di uno di loro, il dott. Giulio Gigante: «Aveva ormai settantatre anni: un gran vecchio, alto, solenne, ieratico, una bianca chioma che gli rifluiva sulle larghe spalle ormai curve per il peso degli anni e gli incorniciava il bel volto sorridente di un sorriso di bontà. Vestito dignitosamente di stracci, le dita affilate e annerite dal fumo delle sigarette, l’andatura dinoccolata e camellante, un largo sorriso, mi accolse insieme a un mio carissimo amico (…) in una fredda serata in un corridoio buio dell’ala vecchia del vecchio ospedale, reparto “vecchi” (si chiamava così, brutalmente, l’ospizio!). (…) Era stato ricoverato qualche tempo prima tra i poveri del nostro ospedale. La retta la pagava l’Ente Comunale di Assistenza di Bari (…). Cominciò quella sera d’inverno del 1959 il magnifico, sconvolgente sodalizio tra un giovane ultrasettantenne Poeta e un gruppo di universitari conversanesi. A Conversano egli ritrovò un’altra giovinezza, come spesso ci diceva. Stette in mezzo a noi, volle lasciare l’ospedale, partecipò alle nostre riunioni. Noi lo nominammo Presidente onorario della Università Popolare e ci sembrò la più bella Università Popolare del mondo, perché avevano come capo il più grande Poeta del mondo. (…) Ma i momenti più belli vissuti con lui furono quelli in cui ci raccontava la sua vita avventurosa, i suoi amori per la marchesina Sangiuliano, i suoi studi ad Oxford e alla Sorbona, le condanne a morte, la sua antica amicizia con il Presidente della Unione Sovietica, Anastasia Micoyan, la sua Armenia e il suo popolo disperso, il suo approdo a Bari nei primi anni del secolo, la sua poesia disperata e tragica, ma così densa di umanità»  (33).
Il 28 gennaio 1962 la “Gazzetta del Mezzogiorno” pubblicò la notizia della sua morte. Il «mago» che si era innalzato sulla «Santa Scala», l’«Iniziato» che ne “Il Grande Canto della Cosmica Tragedia” aveva alluso alla fraternitas dei Rosacroce, si era definitivamente inginocchiato ai piedi del Signore, e, come i suoi poeti coronati di «rose e sangue», «fieri nell’aurora e miti a sera», gli aveva recato «in votiva offerta» i «fiori sanguinanti» delle sue ferite (34).
Come scrisse in una lettera del 5 aprile 1949 – lettera inedita che, insieme ad altri preziosi manoscritti recentemente rinvenuti in Campania, ci è pervenuta grazie alla squisita sensibilità della Donante –, «Io continuo a soffrire. Forse soffrendo al di là delle nostre forze conquistiamo la saggezza e superiamo il destino. Forse il nostro dolore è la nostra più grande ricchezza, la nostra più pura forza, e solo il peso della croce misura la nostra vera grandezza (…) L’epoca dei dispersi è la nostra e noi dobbiamo lavorare senza riposo nell’incanto del nostro meraviglioso tormento. Noi sappiamo che il dolore non è senza dolcezza, il sacrificio non è senza fecondità. Noi inizieremo gli uomini alla verità del nostro sacrificio. Con la nostra superba fede convertiremo le spine in rose, l’ombra in faville. Pietra su pietra noi ricostruiremo, passo a passo riprenderemo la via delle speranze lontane. Abbiamo un tesoro da custodire, un’idea da santificare, un culto da mantenere». 

                                                                                                                    
                                                                Note
 
 1 Cfr. “I massacri armeni. Dichiarazioni di testimoni oculari”, Failli, Roma 1916, p. 6.
 2 Id., pp. 8-9.
 3 “Destino”, in H. Nazariantz, “Il Ritorno dei Poeti ed altre poesie”, Kursaal, Firenze 1952, pp. 29-30.
  4  Cfr. H. Nazariantz, “I Sogni crocefissi”, vers. it. di E. Cardile, Premessa del Traduttore, Humanitas, Bari 1916, p. 26.
  5 Cfr. K. Beledian, “H. Nazariantz dans la littérature arménienne”, in“Hrand Nazariantz fra Oriente e Occidente”, «Atti del convegno internazionale  di studi - Conversano, 28-29 novembre 1987», Schena Editore, Fasano 1990, pp. 40-43.
  6 Cfr. H. Nazariantz, “I Sogni crocefissi”, cit., p. 10.  
  7 Cfr. M. Filippozzi Zorzi, “L’attività poetica del Nazariantz in Italia”, in “Hrand Nazariantz fra Oriente e Occidente”, cit., p. 65. 
  8 AA. VV., “Dal Simbolismo al Déco”, antologia poetica a c. di G. Viazzi, Einaudi, Torino 1981, t. I, p. 9.
  9 Cfr. H. Nazariantz, “I Sogni crocefissi”, cit., p. 12.
 10 Id, pp. 15-17.
 11 Id., p. 22.
 12  Amico del dott. Gérard Encausse – quel «Papus» che, confidente dello zar Nicola e della zarina Alessandria di Russia, nel 1888 aveva fondato con Péladan e Stanislas De Guaïta l’«Ordre Kabbalistic de la Rose-Croix» –, l’ideatore dei «Salons de la Rose+Croix» nel 1889 aveva dato vita, con Encausse, De Guaïta e Villiers de l’Isle-Adam, alla rivista “L’Initiation”.
 13 Cfr. H. Nazariantz, “I Sogni crocefissi”, cit., p. 13.
 14  Id., p. 21.
 15 “Graal”, V, 1 (1956).
 16 Cfr. H. Nazariantz, “I Tre Canti de la Promessa”, ne “I Sogni crocefissi, cit., pp. 108-109.
 17 Cfr. K. Beledian, “H. Nazariantz dans la littérature arménienne, cit., p. 40.
 18 Un’immagine, questa, richiamata dal critico e scrittore armeno Enovk’ Armene (1883-1968), che, parlando dell’«affannosa ricerca» del Nazariantz, scrisse che gli ricordava «l’eroe di Byron arso dalla sua febbre d’infinito, ma singhiozzante: “L’albero del sapere non è quello della vita, e coloro che più sanno devono piangere più amare lacrime sulla verità fatale”» (cfr. H. Nazariantz, “I Sogni crocefissi”, cit., p. 18).
 19  «Naziariantz», scrisse ancora il Giardini ne “Il Secolo XX” (“Interpreti dell’anima armena”, 1948), «è un ermetico: la bellezza è nella sua poesia, difesa come i tesori delle fiabe, da sette porte di bronzo, sette porte d’argento, sette porte d’oro. D’orientale nella sua lirica non rimangono se non l’opulenza regale dei colori, la ricchezza descrittiva e un certo misticismo che non è né il misticismo dei francesi impersonato nel semplicista Jammes e nell’irriverente Claudel, né il misticismo di Tagore. Tutti i segreti musicali che hanno ossessionato gli ultimi poeti occidentali sono in potere di Hrand Nazariantz»
20 Cfr. H. Nazariantz, Cuore, in “Graal” VI, 2 (1957), p. 1. 

21  Cfr. “I massacri armeni. Dichiarazioni di testimoni oculari”, cit., pp. 9-10.
22 Archivio di Stato di Bari, Massoneria in Bari e Provincia, risposta del 21 dicembre 1928 a una nota ministeriale del 13 agosto 1928 (Busta 195, fasc. 18 –Prefettura di Bari, Massoneria, 1923-31).
23 Cfr. D. Cofano, “La cultura di Hrand Nazariantz e la sua presenza in Puglia”, in “Hrand Nazariantz fra Oriente e Occidente”, cit., p. 84. Cofano ricorda, peraltro, che «nonostante i probabili e comprensibili cedimenti di un profugo costretto a subire, per la difesa e la sopravvivenza sua e di quella dei fratelli d’Armenia, le pressioni e le intimidazioni di un potere politico che (…) sembrava potesse riaprire un’era di nuove speranze per la soluzione del problema della patria, disillusa e martoriata dagli accordi internazionali», l’orizzonte culturale del Nazariantz rimane «sostanzialmente quello di un libertario democratico, repubblicano, e, al limite, anarchico, come si evince persino dalla dittica citazione di Voltaire e Littré, che sono fra i più tipici esponenti della massoneria democratica» (id., p. 85).
24 Archivio “Hrand Nazariantz”, “Per la signorina Giovanna Innocenti”, 2 ottobre 1945, in D. Cofano, cit., p.87.
25 Archivio di Stato di Bari, Attività dei Massoni in Bari e Provincia, risposta del 27 gennaio 1929 a una nota ministeriale del 3 settembre 1928 (Busta 195, fasc. 18).
26 Da “O mia Patria! in H. Nazariantz, “I Sogni crocefissi”, cit., p. 83.
27 Cfr. E. Pappacena, “… Per il nostro tempo”, Cacucci Editore, Bari 1959, pp. 47-48.
28 “Manifesto Graalico”, Bari, 1951 (Archivio privato, Milano), in D. Cofano, “Il crocevia occulto. Lucini, Nazariantz e la cultura del primo Novecento”, Schena, Fasano 1990.
29 Ibidem.
30 Cfr. N. Nazariantz, “La Vera Letteratura”, in“Graalismo”, I, 1 (gennaio-marzo 1958), p. 1.
31 Cfr. H. Nazariantz,  “Il Grande Canto della Cosmica Tragedia”, Casa Editrice Gioconda, Bari 1946, p. 23.
32 In “Graalismo”, II, 3 (luglio-settembre 1959), p. 15.
33 G. Gigante, “Hrand Nazariantz a Conversano, sua ultima ‘terra d’esilio’”, in “Hrand Nazariantz fra Oriente e Occidente”, cit., pp. 123-125.
34 “Il Ritorno dei Poeti”, in H. Nazariantz, “Il Ritorno dei Poeti ed altre poesie”, cit., pp. 13-20. 
                    
 
                                                                                                                                Paolo Lopane
 
ARTICOLO GIA’ PUBBLICATO DALL’AUTORE IN “VIE DELLA TRADIZIONE", ANNO XXXVII, N. 147 (SETTEMBRE-DICEMBRE 2007)

Una moneta seicentesca dal Palazzo Vescovile di Bitetto

Nel giugno del 1983, in occasione dei lavori di ristrutturazione dell’ex Palazzo Vescovile di Bitetto e, più precisamente, durante un saggio di scavo nel vano a piano terra prospiciente Piazza del Popolo, l’allora direttore dei lavori, l’ing. Vincenzo Frascolla, rinvenne un’antica moneta che, prontamente consegnata alla Soprintendenza per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici della Puglia, presentava su una delle facce una croce centrale inquartata con quattro piccole croci inserite nei bracci e, sull’altra, un’effige con monogramma MC. La moneta, come si legge nel verbale di consegna e confermò in séguito Frascolla in un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 19 luglio 1985, era stata trovata su una risega di fondazione, e bene ipotizzò l’ingegnere che, «probabilmente», era stata lì collocata «a testimoniare la datazione delle fondazioni». Quando, infatti, nella primavera del 2010, ho rintracciato il reperto per poterne individuare sul piano storico la provenienza e la data di coniazione, la riproduzione digitale, consegnatami dopo una lunga ricerca dalla Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Puglia di Bari, ha consentito di identificare la moneta come un grano di re Filippo IV di Spagna (1621-1665), coniato fra il 1622 ed il 1624, allorché zecchiere del Regno era Michele Cavo.


La moneta seicentesca
Detta moneta, dunque, ci riporta agli anni in cui mons. Messerotti († 1630), stando alla Cronologia de’ vescovi bitettesi composta nel XVIII secolo dal canonico Riccardo Iacovielli († 1778), decideva di «riparare le rovine imminenti del suo Vescovil Palazzo, minacciato dagli oltraggi del tempo». Come scrisse, infatti, lo storiografo bitettese, il bolognese Michele Messerotti, già Generale dell’Ordine Francescano assurto alla cattedra episcopale di Bitetto nel 1624, non solo evitò «la temuta rovina», ma vi «fè edificare un Nobil quarto soprano composto di molte stanze» # : «a fundamentis erexit», si legge nell’iscrizione riportata dallo Iacovielli, «A. D. MDCXXV», ossia nel 1625. La moneta, dunque, secondo una diffusa consuetudine, era servita a datare l’inizio dei lavori voluti dall’energico presule che tanto si era speso per la ristrutturazione e l’abbellimento del convento in cui era vissuto Fra’ Giacomo da Varingez. 
Quanto alla croce cantonata da quattro crocette – la cosiddetta ‘croce di Gerusalemme’, emblema di re Giovanni di Brienne (1210-1225) e poi campeggiante su diverse monete fatte coniare da Carlo I d’Angiò (1266-1285) e dai suoi successori –, era stata adottata da Filippo IV perché, come i suoi predecessori, il sovrano spagnolo recava il titolo di Re di Sicilia e di Gerusalemme. Molto simile, ad esempio, fu una moneta coniata sotto Filippo II e datata 1577 che, recante sul verso la testa barbata del re con la scritta «in hoc signo vinces», riportava sul recto la croce di Gerusalemme. 
Colgo, al riguardo, l’occasione per sollecitare le amministrazioni cittadine a porre rimedio al degrado e allo stato di abbandono in cui versa l’ex Palazzo Vescovile, considerato «di importante interesse storico-artistico» e inserito, come tale, negli elenchi descrittivi degli edifici di particolare interesse storico-artistico del Comune di Bitetto nell’anno 1981. Come ha osservato Lino Fazio richiamando gli Atti della Commissione Franceschini pubblicati a Roma nel 1967, è fondamentale «maturare collettivamente la consapevolezza» che il borgo antico, «come ogni altra testimonianza archeologica, artistica o paesistica è ‘patrimonio dell’umanità di cui ogni possessore singolo, ogni paese, ogni generazione debbono considerarsi soltanto depositari e quindi responsabili di fronte alla società, a tutto il mondo civile e alle generazioni future’».


                              Note 


1. Le lettere MC altro non costituivano, infatti, che le iniziali del nome dello zecchiere, Michele Cavo. Mi sono avvalso della qualificata consulenza del prof. Giuseppe Colucci, presidente del Circolo Numismatico Pugliese della Società di Storia Patria sez. Puglia, a cui vanno i miei ringraziamenti (riferimento bibliografico: Pannuti-Riccio, 55-A).

2. R. Iacovielli, Cronologia de’ vescovi bitettesi, edizione manoscritta a cura di P. Giuseppe Maria dei PP. RR., 1835, Tomo I, Parte II, pp. 76-77, Biblioteca Comunale di Bitetto.

3. Carlo I d’Angiò aveva acquistato i diritti sul Regno di Gerusalemme da Maria principessa di Antiochia († 1274), figlia di Boemondo VI e di Isabella (o Sibilla) d’Armenia.
4. L. Fazio, Bitetto nel Medioevo. Profilo storico-urbanistico di un borgo rurale di Puglia, A cura dell’Arco, Bitetto 1997, p. 208. 


                                                                                                                                           Paolo Lopane


Di seguito una foto della moneta e delle immagini rappresentative lo stato di abbandono del Palazzo Vescovile: l’ingresso murato, la muta fontanella e la rigogliosa vegetazione  infestante il muro su  via del Rovescio. (Foto di T. Magrino)

Santuario di Sovereto (Terlizzi-Bari). Una croce giovannita.

Di recente, accurati lavori di pulizia condotti sulla lastra tombale di fra’ Raimondo di Bolera, precettore della domus di S. Maria di Sovereto, hanno restituito al suo nitore una croce di foggia ottagonale che, richiamo alle Otto Beatitudini dell’evangelico Discorso della Montagna (Mt 5, 3-10), rafforza la ragionevole certezza che il «religiosus vir frater Raymundus de Bolera» di cui parlava un documento (oggi scomparso) menzionato da D. Pasquale De Giacò (1), documento in base al quale nel 1297 il precettore aveva ratificato l’atto con cui nel 1219 fra’ Trasmondo, «precettore e maestro della chiesa di S. Maria di Soverito», aveva acquistato «dalle monache di S. Maria a Mare di Barletta un comprensorio di terre» nel tenimento di Terlizzi, appartenesse all’Ordine monastico-cavalleresco di S. Giovanni di Gerusalemme. 

Del resto, la preziosa charta del 16 dicembre 1309 (2), charta in cui si legge che un «frater Poncius de Podio», «preceptor sancte Marie de Severito», aveva in quell’anno rivendicato beni dell’Ospedale indebitamente tenuti dal priore di S. Martino di Molfetta, attesta a chiare lettere che l’Ordine che gestì per secoli ladomus, a vocazione agricola e, insieme, ospedaliera, fu, appunto, quello fondato dal Beato Gerardo e militarizzato sotto la guida di fra’ Raimondo di Puy. Ancora nel 1475, come si evince da una lapide affissa sul portale dell’ingresso monumentale dell’atrio del santuario, la domus era retta da un precettore giovannita. Ciò non esclude, naturalmente, che questa fondazione monastico-cavalleresca, che, come ricordava il De Giacò, ospitava «due conventini separati», uno maschile, l’altro femminile, destinati alla cura dei pellegrini che «per lo lungo viaggio o si ammalavano, o stanchi avevano bisogno di riposo», potesse essere appartenuta nel XII secolo a quell’Ordine dei Cavalieri del Tempio la cui Regula, approvata nel Concilio di Troyes, all’art. LVI si limitava a raccomandare di non ampliare il numero delle sorores, evidentemente presenti sin dai primi anni della sua istituzione.

Ad ogni modo, la croce finalmente rievidenziata, che precede l’iscrizione relativa all’identità del precettore – «Hic iacet f(rate)r Ramundus de Bolera preceptor olim domus Sancte Marie de Suberito...» –, viene ad affiancare quella che, di tipo parimenti patente e di foggia anch’essa ottagonale, appare sulmantello del de Bolera, a ricordarci le Otto Beatitudini e, nel contempo, il sacrificio che questi monaci-combattenti – uomini che rinunciavano a tutto, alle gioie del mondo come alla quiete dei chiostri – seppero affrontare ad Hattin come a S. Giovanni d’Acri, a Rodi come a Malta, dove, resistendo alle soverchianti forze del sultano Solimano il Magnifico, nell’estate del 1565 avevano concorso a salvare la Cristianità dal tentativo ottomano di accerchiamento dal Sud.


NOTE

Particolare croce giovannita, foto prof. Cosma Cafueri docente di Fotografia

1 - Cfr. P. De Giacò, Il santuario di Soverito in Terlizzi, ossia notizie storiche e cronologiche riguardanti la invenzione della miracolosa immagine di Maria SS. di Soverito, Bari 1872, p. 30.

2 - Cfr. CDB, Le Carte di Molfetta (1076-1309), a cura di F. Carabellese, Bari 1912, vol. VII, doc. n. 170, p. 222.

 

                                                                                                      Paolo Lopane

 

 

 

Celestino V e il «Gran Rifiuto»

 

Deponendo nel processo di canonizzazione di Pietro del Morrone – il pio eremita della Maiella che, nel 1294, venne elevato al soglio di San Pietro con il nome di Celestino V – fra’ Bartolomeo da Trasacco, uno dei discepoli a lui più fedeli, dichiarò che le sue vesti erano nodosi cilici di peli gravati da pesanti catene che ne martoriavano le carni. Soleva cibarsi – aggiunse – di pezzi di pane raccattati d’estate, per lo più offerti in elemosina, pezzi che faceva seccare al sole per cibarsene d’inverno quando la neve avrebbe impedito di raccoglierne. Diveniva così duro, quel pane, che bisognava romperlo con il martello; e poiché, nel farlo, si frantumava tutto e ne uscivano ragni e vermi, doveva scuoterlo prima di mangiarlo.

Immagini forti, immagini rievocanti i tempi eroici dei primi anacoreti cristiani, certo agli antipodi dal triste spettacolo offerto da figure ecclesiali come quelle del successore di Celestino, Benedetto Caetani, quel Bonifacio VIII (1294-1303) che Dante definì «lo principe de’ novi Farisei» ed accusò di avere tratto «a ’nganno la bella donna» (la Chiesa) e d’ averne fatto «strazio»; ma agli antipodi, altresì, da quel papa Clemente V (al secolo, Bertrand de Got, † 1314) che, simoniaco e corresponsabile con re Filippo il Bello della tragedia dei Templari – «pastor sanza legge», lo definì l’Alighieri –, aprì la lunga ed oscura parentesi della “cattività avignonese”, conclusasi nel 1377, quando papa Gregorio XI (1370-1378), prendendo residenza in Vaticano, riportò nell’Urbe la sede del papato. Secondo il cronista Giovanni Villani, il «Guasco» aveva promesso al sovrano le decime del suo regno per cinque anni.
Si comprendono, dunque, gli sferzanti versi del Petrarca, che, già al servizio del cardinale Giovanni Colonna, avrebbe scritto nel Canzoniere:


«De l’empia Babilonia ond’è fuggita
ogni vergogna, ond’ogni bene è fori,
albergo di dolor, madre d’errori,
son fuggito io per allungar la vita»
(CXIV, 1-4)


Erano i secoli, quelli, delle grandi eresie, della rinascita dell’eversiva fenice gnostica, dell’accanita lotta contro gli Albigesi. Ma non era solo la contro-chiesa catara ad attaccare Roma. Le voci del dissenso si levavano alte dal di dentro, dal mondo cattolico, che da tempo auspicava un ritorno all’«usus pauper», alla «forma sancti Evangelii» – la povertà della Chiesa delle origini.
Ricordo le tonanti parole dell’Alighieri:


«Fatto v’avete dio d’oro e d’argento:
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
(Inferno, XIX, 112-117)


Il poeta si riferiva, qui, al Constitutum Constantini - la ‘Donazione di Costantino’ –, clamoroso falso elaborato dalla cancelleria pontificia e riconosciuto tale già da Lorenzo Valla nella prima metà del XV secolo.
Finanche nell’Ordine dei Cavalieri del Tempio – braccio armato del cristianesimo romano – si levarono alte le voci del dissenso. Penso, in particolare, al poeta Ricaut Bonomel, al suo Ir’ e dolor (1265 ca.), composto all’indomani della perdita di Arsuf, quando, amareggiato ed oramai disincantato, il frate occitano scrisse che


«Lo Papa fai de perdon gran largueza
contrals Lombartz a Carl’e als Frances;
e sai, ves nos en mostra gran cobeza,
que nostras crotz perdona per tornes.
E qui vol camjar Romania
per la guerra de Lombardia,
nostre Legatz lor en dara poder,
qu’il vendon Dieu el perdon per aver» (1).


Non sorprende che Jacopone da Todi, francescano della corrente degli Spirituali che avrebbe conosciuto il carcere e la scomunica per mano di Bonifacio VIII, volle rivolgere a Celestino V questa lauda ammonitoria:


«Que farai, Pier da Morrone? Éi venuto al paragone
(…)
L’Ordene cardenalato posto s’è en basso stato;
ciascheun so parentato d’arriccar ha intenzione!
Guàrdate da prebendate,
che sempre i trovarà affamate;
e tant’è sua seccetate
che non se ‘n va per potasone!
Guàrdate da baretteri
Ch’el ner bianco ’l fo vedere;
se non te ’n sai bene scrimire, cantarai mala canzone».


E mala canzone dovette cantarla davvero, Celestino, giacché, come presto vedremo, venne assassinato nella rocca di Fumone, presso Ferentino (in Ciociaria), dove Bonifacio VIII, dopo il gran rifiuto, l’aveva segregato. Cinque mesi e nove giorni era durato in tutto il suo pontificato: già il 13 dicembre 1294, influenzato dal Caetani, Pietro del Morrone pronunziò la renuntiatio. Lo fece, disse, perché infermo, inadatto per carenza di dottrina a reggere la Chiesa, ma anche – aggiunse – per il desiderio di tornare alla vita contemplativa: facendo, dunque, riferimento a cause di rinuncia canonisticamente ammesse come il «defectus scientiae» e lo «zelum melioris vitae». Un gesto, questo, che fece scalpore in tutta la cristianità; il gesto, per i più, di un santo. Ma il francescano spirituale Ubertino da Casale parlò di «horrenda novitas» e Dante Alighieri, ammesso che nel canto III dell’Inferno facesse davvero riferimento a lui, lo bollò con parole di fuoco.
Dopo avere, infatti, gettato lo sguardo sulla «lunga tratta di gente (…) disfatta» dalla «morte», il Poeta scrisse questi versi brucianti:


«Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto».
(Inferno, III, 58-60)


Lo collocò, dunque, fra gli ignavi – «questi sciaurati», si legge nel terzo canto, «che mai non fur vivi», che «visser sanza infamia e sanza lodo», che non seppero operare il bene per viltà – tormentati «da mosconi e vespe ch’eran ivi»: «elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lacrime, ai loro piedi da fastidiosi vermi era ricolto»: «sangue» e «lagrime», dunque: quel sangue e quelle lacrime che in vita non avevano saputo versare per una nobile causa, per una causa santa.
Ma non è finita: queste anime sono considerate dal Poeta «a Dio spiacenti ed a’ nemici suoi», ossia ai Dèmoni, e non a caso Dante aggiunge che

 

«mischiate sono a quel cattivo coro delli angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé foro»,

 

non essendosi cioè schierate, all’atto della ribellione di Lucifero, né con lui né con Dio: gli angeli neutrali. 

Ricordo, qui, il cattolicesimo ideale di Dante, il pensiero fieramente riformatore di questo guelfo bianco che, contrario a qualunque ingerenza della Santa Sede nelle questioni secolari, anelava ardentemente al suo «Veltro», al fedele custode del gregge di Cristo che avrebbe scacciato via la «Lupa» (ossia la brama incarnata dalla curia romana) e si sarebbe nutrito di amore, sapienza e virtude. Ma anelava, altresì, a quel «Papa Angelico» che, atteso da tempo e vagheggiato dagli epigoni di Gioacchino da Fiore († 1302) e dalla corrente spirituale francescana, si contrapponeva alla triste figura del «Papa politico», perfettamente incarnata da uomini come Bonifacio VIII. In un’Italia in balìa di se stessa, dilaniata dalle discordie e dalle fazioni, nello scenario desolante del declino delle grandi istituzioni universali – il Papato e l’Impero –, la renuntiatio di Celestino V, aprendo la strada a Bonifacio VIII, stroncava ogni residuo sogno di rinnovamento e uccideva la speranza.
Ma si trattava davvero di Celestino V? Era a lui che il canto III si riferiva? Di fatto, l’accostamento al Molisano dell’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto risale all’epoca dantesca, a commentatori della prima e della seconda metà del Trecento come Graziolo Bambaglioli, Jacopo della Lana, Pietro di Dante, e, con qualche esitazione, l’autore dell’Ottimo e, a cavallo del Quattrocento, l’Anonimo Fiorentino. Ma già il Boccaccio († 1375), che fu il primo vero e più appassionato biografo di Dante, aveva scritto circa l’enigmatica figura che


«Chi costui si fosse, non si sa assai certo».


Ma leggiamo un passo del suo commentario alla Commedia, passo di grande interesse perché il Boccaccio raccoglie, qui, testimonianze del proprio tempo; dati che, in gran parte, hanno retto alla ricerca storica:
«Chi costui si fosse, non si sa assai certo; ma, per l’operazione la quale dice da lui fatta, estiman molti lui aver voluto dire di colui il quale noi oggi abbiamo per santo, e chiamamlo san Piero del Morrone, il quale senza alcun dubbio fece un grandissimo rifiuto, rifiutando il papato. E dicesi lui a questo rifiuto essere in questa maniera pervenuto, che, essendo egli semplice uomo e di buona vita nelle montagne del Morrone in Abruzzo sopra Selmona (…), egli fu eletto papa in Perugia, appresso la morte di papa Niccola d’Ascoli»: ossia Girolamo Masci di Ascoli, papa Niccolò IV (1288-1292), già successore di Bonaventura da Bagnoregio alla guida dell’Ordine Francescano.
Ma sentiamo ancora il Boccaccio: «considerando» la di lui «semplicità» – la simplicitas, cioè, di Celestino –, «messer Benedetto Gatano cardinale, uomo avvedutissimo (…) e disideroso del papato, astutamente operando, gl’incominciò a mostrare che esso in pregiudicio dell’anima sua tenea tanto oficio, poiché a ciò sofficiente non si sentìa. Alcuni voglion dire ch’esso usò con alcuni suoi segreti servidori, che la notte voci s’udivano nella camera del predetto papa, le quali, quasi d’angeli mandati da Dio (…), dicevano: ‘Renunzia, Celestino! Renunzia, Celestino!’». «Dalle quali mosso», continua Boccaccio, «elli (…) ebbe consiglio col predetto messer Benedetto del modo del poter renunziare. Il quale gli disse: - Il modo sarà questo, che voi farete una decretale, nella quale si contenga che il papa possa nelle mani de’ suoi cardinali renunziare il papato. – Il quale [Benedetto Caetani] come a doverla fare il vide disposto, essendo essi in Napoli, segretamente fu col re Carlo secondo, re di Cicilia, a cui stanza il detto papa poco davanti avea fatti dodici cardinali, e apertogli l’animo suo, gli promise d’aiutarlo con ogni forza della Chiesa nella guerra sua di Cicilia, dove facesse che, rifiutando Celestino il papato, esso facesse che i dodici cardinali, fatti a sua stanza, gli dessero le boci loro [ossia i loro voti] nella elezione: la qual cosa il re gli promise». ‘Voto di scambio’, dunque: il voto cardinalizio al Caetani in cambio dell’appoggio a Carlo II nella contesa con gli Aragonesi, che, dopo i Vespri siciliani, avevano strappato agli Angioini la Sicilia. «Laonde esso», continua il Boccaccio, «con alcuni altri cardinali italiani, sotto certe promessioni, ordinato questo medesimo, adoperò che il papa pronunziò la legge del dover potere rinunziare il papato: e il dì di santa Lucia, essendo stato cinque mesi e alcun dì papa, venuto co’ papali ornamenti in concistoro, in presenza de’ suoi cardinali pose giù la corona e il papale ammanto, e rifiutò al papato. Di che poi seguì che la vilia di Natale messer Benedetto predetto fu eletto papa e chiamato Bonifazio ottavo».
Ma non è finita: dopo aver suggerito a Celestino V le modalità canonistiche della rinuncia al papato, il cardinal Caetani, divenuto papa, nel timore di ritrovarsi di fronte un antipapa, con l’aiuto di Carlo II fece arrestare e segregare Pietro del Morrone a Castel Fumone. Ecco come la racconta Boccaccio:
«Bonifazio, (…) percioché vedeva gli animi di molti inchinarsi ad avere nel detto frate Piero, quantunque rinunziato avesse, divozione come in vero papa, fece il predetto frate Piero chiamare dal monte Sant’Agnolo in Puglia, dove per divozione andato n’era, e quindi, secondo che alcuni affermano, era disposto di passarsene in Ischiavonia, e quivi in montagne altissime e salvatiche finire in penitenza i dì suoi; il fece chiamare, e fecenelo andare alla rocca di Fumone, e quivi tennelo mentre visse».
«Mentre visse», dunque; ossia fino al 19 maggio 1296. Sulla sua morte, due sono le versioni. La prima, agiografica, vuole che il 13 maggio 1296, domenica di Pentecoste, Celestino, rinchiuso nella sua cella, avesse chiamato due suoi discepoli per chiedere l’olio santo, e questi, allarmati, avevano fatto accorrere le guardie. Costoro, dal venerdì successivo fino all’ora della sua morte – l’ora del Vespro – avrebbero visto sulla soglia della stanza dove l’uomo agonizzava una croce d’oro pendente nell’ aria. Ma il 29 agosto 1888, nella cappella di Santa Maria di Collemaggio dedicata a Celestino, il professor Luigi Gualdi ed altri quattro medici effettuarono una perizia sul teschio del Santo che non dà adito a dubbi. Si legge nel loro referto: «Nel punto + sporgente della bozza frontale sinistra, a livello della metà del margine sopra-orbitale, distante da esso circa 4 centimetri, esiste un forame rettangolare, a margini retti, senza nessuna lesione ossea circostante. Il lato orizzontale del rettangolo misura circa 5 millimetri; l’altro, il verticale, circa 9 millimetri. Il foro, penetrante in cavità, lascia nettamente distinguere i tre strati cranici». E conclusero «che l’origine della suddescritta lesione non possa menomamente essere accidentale, ma sia da dipendere dalla mano dell’uomo, col sussidio di adatto strumento; «che nell’ipotesi che tale strumento sia un chiodo di forma comune, il tratto di esso penetrato in cavità, abbia a valutarsi di circa 5 centimetri» (2).
Nel dicembre del 1982, il professor Marino Benvenuti (docente di psichiatria e neuropatologia e, per dodici anni, direttore dell’ospedale neuropsichiatrico di Collemaggio) ritenne trattarsi di «un colpo netto di pugnale a lama quadrangolare» (3): un’esecuzione, dunque, in piena regola, mentre Pietro dormiva.

 

NOTE
1) «Il Papa largheggia in indulgenze per la guerra di Lombardia a beneficio di Carlo e dei Francesi; mentre da noi mostra grande avidità, se, per soldi tornesi, fa indulgenza con le nostre croci. A chi volesse cambiare la Romania per la guerra di Lombardia, il nostro Legato gliene darebbe facoltà; perché [i chierici] vendono Dio e il perdono per danaro».
2) Cfr. O. GURGO, Celestino V e gli Spirituali, Mamma Editori, Gugnano 1998, pp. 272-273. L’opera è frutto dell’integrazione e rielaborazione dell’ottava edizione del volume (del medesimo autore) Celestino V, De Agostini, Novara 1988.
3) ID., p. 273.

 

                                                                                                                                                 Paolo Lopane

 

 

“TORRE DELLE STELLE”

ANTICA SIMBOLOGIA CRISTIANA NELLA CAMPAGNA MOLESE.

di Paolo Lopane

Il recente ritrovamento in agro di Mola del manufatto rurale suggestivamente denominato «Torre delle Stelle», prontamente segnalata alla competente Soprintendenza dal professor Vito Didonna e dal dottor Andrea Giorgio Laterza, merita certamente l’attenzione dello storico.

Ad un occhio disattento potrebbe apparire come una delle tante torrette di campagna adibite ab origine a rifugio o deposito agricolo, ma, al di là dell’utilizzo che nel corso del tempo ne sia stato fatto, la costruzione, ricoperta da incisioni di diversa fattura la cui grammatica figurativa, di carattere religioso, insiste sul simbolismo cristiano della stella, deve aver avuto una funzione (se non pure una destinazione) sacrale.

La «torre» presenta, del resto, manifeste analogie con un altro manufatto scoperto nel 1969 in agro di Mola (località San Materno) dal dottor Sebastiano Tagarelli, che in un saggio sulla vicina necropoli di Azetium, pubblicato nel giugno di quello stesso anno, lasciò un’accurata descrizione di questo sacrale monumento di forma circolare con cupola tronco-conica che venne poi sciaguratamente abbattuto.

Iconografia del Santo Sepolcro riprodotta nel tempietto medievale di San Materno

Il Tagarelli non esitò a parlare di «costruzione paleocristiana» e, quindi, di «camera sepolcrale», con particolare riferimento ad una lastra sormontante l’ingresso del monumento che, inquadrata in una suggestiva cornice di stelle, recava incisa la scena della Deposizione di Cristo. Le figure stilizzate del «Cristo deposto», della Vergine, di san Giovanni e della Maddalena, scolpite ai piedi della Croce, non possono stilisticamente non richiamare le incisioni di figure a sfondo religioso che campeggiano su una lastra calcarea incassata sul frontale della «Torre delle Stelle», dove si vedono chiaramente il profilo di una figura femminile coronata – con ogni probabilità la Vergine con il capo coronato di stelle –, l’immagine di un teschio ed otto sagome presumibilmente maschili.

Lo stile delle incisioni ed i contenuti iconografici delle lastre, con il palese riferimento alla vittoria spirituale sulla morte (il sepolcro di Cristo, il teschio, la Donna «vestita di sole» dell’Apocalisse) fanno pensare che in fase di costruzione (o di ricostruzione) della «torre» sia stato utilizzato materiale lapideo proveniente dalla necropoli dell’antica Azetium, la cui area continuò ad essere abitata anche in epoca romana ed ancora nell’Età di Mezzo fu presumibilmente attraversata dai numerosi «viandanti di Dio» che, diretti ai porti d’imbarco per la Terrasanta, percorrevano il tratto litoraneo dell’Appia Traiana o le diramazioni del ramo subcostiero di quest’antica strada che, biforcandosi a Bitonto, conduceva ad Egnatia attraversando le località di Caelia (l’odierna Ceglie del Campo), Azetium (a nord-est di Rutigliano) e Norba (l’attuale Conversano).

La parte centrale e superiore della costruzione rurale rinvenuta nel maggio 2020 in agro di Mola. Si nota la perfetta analogia con le figure sacre stilizzate già presenti nel tempietto di San Materno, andato distrutto successivamente alla segnalazione del dott. Sebastiano Tagarelli, studioso nojano, nel 1969.

Quanto alle numerose stelle che decorano la «torre» – a cominciare da quella a cinque punte incisa sul pinnacolo sormontante il frontale –, testimoniano di una remota tradizione artistica che già in epoca paleocristiana, con riferimento ai passi biblici in cui il simbolismo della luce ricorre in chiave messianica, elevò la lux Christi a cifra stessa dell’epifania del Redentore.

Le stelle scolpite nei blocchi di pietra della costruzione rurale rinvenuta in agro di Mola sono numerose e con un numero di raggi variabile

Il Cristo-Lógos – «Sol salutis occasum nesciens» («Sole di salvezza che non conosce tramonto») – fu infatti raffigurato anche in veste solare: si pensi al mosaico della necropoli sottostante la basilica romana di San Pietro, dove Cristo è presentato con gli attributi di Apollo, la quadriga e i cavalli; ed è in tal senso significativa la leggenda secondo la quale Costantino il Grande fece usare schegge e chiodi della Vera Croce per far incorniciare una statua di Apollo e creare sul suo capo una corona di raggi.

Risoluto ad evitare lo sfaldamento dell’Impero, Costantino aveva un evidente interesse a saldare il cristianesimo ai culti eliaci preesistenti. Fu lui ad insistere perché il «Dies Natalis», la ricorrenza della nascita del Salvatore, fosse spostato al 25 dicembre, giorno che, nel culto persiano di Mithra come in quello siriaco del Sol Invictus, coincideva con la sacrale rinascita del Sole nella settimana del solstizio invernale.

Ma, qualunque cosa fosse davvero accaduta nell’imminenza della battaglia di Ponte Milvio, quando, secondo la tradizione, Costantino fece dipingere il monogramma di Cristo (le lettere greche Chi e Rho) sugli scudi dei suoi legionari a seguito della visione di una croce luminosa con la scritta «in hoc signo vinces», l’antico monogramma del Cristo, raffigurato in un duplice o triplice cerchio, continuò a rappresentare l’equivalente della ‘ruota solare’, eliaco simbolo associato all’immagine del «Kronocrator» (Cristo Signore del Tempo) e quindi scandito dalla croce assiale.

Polisemico come ogni simbolo, nella variante assunta nella tradizione irlandese il chrismon rinviò altresì all’idea delle cicliche età del mondo, con il Cristo-Sole collocato al centro del progetto escatologico divino. Idee, queste, che si ritroveranno nella «Croce ciclica» di Hendaye (Basses-Pyrénées) come nel ciclo di affreschi della chiesa templare di Montsaunès (Haute-Garonne), dove, come ricorda lo storico dell’arte Gaetano Curzi, si ripropone «il tradizionale accostamento, sia formale che semantico, del chrismon ai corpi celesti, secondo un’assimilazione di consolidata tradizione, basata sui passi biblici che identificano Cristo come ‘vera stella’».

Analogamente, nella grammatica figurativa della chiesa templare di San Bevignate, a Perugia, si rileva una «sequenza di allegorie cristologiche» che «dalla croce del supplizio» va «al Cristo-luce» e, quindi, «all’assimilazione di Cristo come ‘vera stella’».

Ma, per restare in terra di Puglia, non si può sottacere quanto affiora nei quattrocenteschi affreschi del vano attualmente adibito a sacrestia della chiesa ospitaliera di Santa Maria di Sovereto (presso Terlizzi), dove sotto una volta disseminata di stelle, campeggia un sole raggiante accanto ad una tradizionale croce greca, a una vistosa stella ad otto punte e a diversi altri simboli tradizionali che, come nella Cripta del Crocefisso di Ugento – palinsesto di culture il cui quadro d’assieme racchiude una stupefacente varietà di rotae e (di nuovo) di stelle – bene esprime la lettura olistica che l’uomo del Medioevo (più in generale, delle civiltà tradizionali) faceva attraverso la «signatura rerum» del mondo e delle sue creature, cifra e specchio di verità spirituali e, quindi, dei divini misteri.

Cripta del Crocifisso di Ugento, la volta con stelle a otto punte e sei punte

Non sbaglia quindi Maria Stella Calò Mariani, in uno studio sull’insediamento teutonico di Torre Alemanna (presso Cerignola), nel rilevare come la stella clipeata a cinque punte che funge da chiave di volta dei quattro costoloni che si dipartono dai capitelli a crochet sormontanti le colonnine di pietra del vano a piano terra del torrione, altro non rappresenti che «il pentagramma di memoria pitagorica», «emblema del microcosmo» che nella mistica cristiana assurse a simbolo delle cinque piaghe di Cristo e della salvifica «Stella del mattino»; né sbaglia nel riconoscere il medesimo simbolo accanto alla serie di scudi cavallereschi graffiti sulla superficie degli affreschi di San Michele Arcangelo e della Vergine Odegitria nella chiesa rupestre di Ognissanti sul Gargano.

Di fatto, lungo il cammino pellegrinale denominato ‘Scannamugliera’, che sulle pendici di Monte Sant’Angelo s’inerpica fino alla grotta d’Ognissanti, si nota un altro suggestivo simbolo della tradizione eliaca: una croce greca inscritta in un cerchio, croce che sul piano figurativo s’apparenta a quella scolpita in un blocco di pietra sul muro perimetrale opposto alla facciata principale della «Torre delle Stelle» e, per molti versi, alla croce inscritta in un cerchio che campeggiava sul blocco centrale di chiusura della porta del monumento scoperto e poi distrutto in località San Materno.

La croce greca inscritta in un cerchio, scolpita in un blocco di pietra sul muro perimetrale della “Chiesa delle Stelle” di Mola

Ce n’è abbastanza, dunque, per comprendere il valore storico di un manufatto – la molese «Torre delle Stelle» – che allo stato attuale della ricerca non è ancora possibile collocare entro precise coordinate temporali ma che testimonia comunque di una remota tradizione artistica che nella mistica cristiana ha trovato, infine, esito e compimento.

Un luogo, dunque, ricco di storia; un luogo dello spirito che testimonia del naturale ruolo della Puglia quale ponte e terra di accoglienza, veicolo di scambi e sincretismi culturali le cui mirabili tracce, scolpite nella pietra, continuano a sfidare i secoli nelle facciate dei suoi templi.

Mi auguro, quindi, che la «Torre delle Stelle» venga preservata dalle incurie del tempo non meno che dalla vandalizzazione di mani sacrileghe: affinché lo scempio compiutosi a San Materno non abbia a ripetersi ancora. 

 

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