- Hrand Nazariantz, Troviero d'Armenia
- Una moneta seicentesca dal Palazzo Vescovile di Bitetto
- Santuario di Sovereto (Terlizzi-Bari). Una croce giovannita
- Celestino V e il «Gran Rifiuto»
- Hrand Nazariantz, Troviero d'Armenia
- Una moneta seicentesca dal Palazzo Vescovile di Bitetto
- Santuario di Sovereto (Terlizzi-Bari). Una croce giovannita
- Celestino V e il «Gran Rifiuto»
«Ti volevo vicino /
per la fine dei Tempi, /
Nazariantz: /
Quale piovra mostruosa /
allunga ora il suo tentacolo dall’Abisso, /
onde afferrare /
il tuo soffice cuore? /
(…) Vagano i nostri Simboli nell’Ombra /
e si disperde /
l’incanto delle nostre parole /
(…) Ma se tu taci, l’altra parola /
da Chi sarà mai raccolta?…»(32).
Nel giugno del 1983, in occasione dei lavori di ristrutturazione dell’ex Palazzo Vescovile di Bitetto e, più precisamente, durante un saggio di scavo nel vano a piano terra prospiciente Piazza del Popolo, l’allora direttore dei lavori, l’ing. Vincenzo Frascolla, rinvenne un’antica moneta che, prontamente consegnata alla Soprintendenza per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici della Puglia, presentava su una delle facce una croce centrale inquartata con quattro piccole croci inserite nei bracci e, sull’altra, un’effige con monogramma MC. La moneta, come si legge nel verbale di consegna e confermò in séguito Frascolla in un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 19 luglio 1985, era stata trovata su una risega di fondazione, e bene ipotizzò l’ingegnere che, «probabilmente», era stata lì collocata «a testimoniare la datazione delle fondazioni». Quando, infatti, nella primavera del 2010, ho rintracciato il reperto per poterne individuare sul piano storico la provenienza e la data di coniazione, la riproduzione digitale, consegnatami dopo una lunga ricerca dalla Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Puglia di Bari, ha consentito di identificare la moneta come un grano di re Filippo IV di Spagna (1621-1665), coniato fra il 1622 ed il 1624, allorché zecchiere del Regno era Michele Cavo.

La moneta seicentesca
Detta moneta, dunque, ci riporta agli anni in cui mons. Messerotti († 1630), stando alla Cronologia de’ vescovi bitettesi composta nel XVIII secolo dal canonico Riccardo Iacovielli († 1778), decideva di «riparare le rovine imminenti del suo Vescovil Palazzo, minacciato dagli oltraggi del tempo». Come scrisse, infatti, lo storiografo bitettese, il bolognese Michele Messerotti, già Generale dell’Ordine Francescano assurto alla cattedra episcopale di Bitetto nel 1624, non solo evitò «la temuta rovina», ma vi «fè edificare un Nobil quarto soprano composto di molte stanze» # : «a fundamentis erexit», si legge nell’iscrizione riportata dallo Iacovielli, «A. D. MDCXXV», ossia nel 1625. La moneta, dunque, secondo una diffusa consuetudine, era servita a datare l’inizio dei lavori voluti dall’energico presule che tanto si era speso per la ristrutturazione e l’abbellimento del convento in cui era vissuto Fra’ Giacomo da Varingez.
Quanto alla croce cantonata da quattro crocette – la cosiddetta ‘croce di Gerusalemme’, emblema di re Giovanni di Brienne (1210-1225) e poi campeggiante su diverse monete fatte coniare da Carlo I d’Angiò (1266-1285) e dai suoi successori –, era stata adottata da Filippo IV perché, come i suoi predecessori, il sovrano spagnolo recava il titolo di Re di Sicilia e di Gerusalemme. Molto simile, ad esempio, fu una moneta coniata sotto Filippo II e datata 1577 che, recante sul verso la testa barbata del re con la scritta «in hoc signo vinces», riportava sul recto la croce di Gerusalemme.
Colgo, al riguardo, l’occasione per sollecitare le amministrazioni cittadine a porre rimedio al degrado e allo stato di abbandono in cui versa l’ex Palazzo Vescovile, considerato «di importante interesse storico-artistico» e inserito, come tale, negli elenchi descrittivi degli edifici di particolare interesse storico-artistico del Comune di Bitetto nell’anno 1981. Come ha osservato Lino Fazio richiamando gli Atti della Commissione Franceschini pubblicati a Roma nel 1967, è fondamentale «maturare collettivamente la consapevolezza» che il borgo antico, «come ogni altra testimonianza archeologica, artistica o paesistica è ‘patrimonio dell’umanità di cui ogni possessore singolo, ogni paese, ogni generazione debbono considerarsi soltanto depositari e quindi responsabili di fronte alla società, a tutto il mondo civile e alle generazioni future’».
Note
1. Le lettere MC altro non costituivano, infatti, che le iniziali del nome dello zecchiere, Michele Cavo. Mi sono avvalso della qualificata consulenza del prof. Giuseppe Colucci, presidente del Circolo Numismatico Pugliese della Società di Storia Patria sez. Puglia, a cui vanno i miei ringraziamenti (riferimento bibliografico: Pannuti-Riccio, 55-A).
2. R. Iacovielli, Cronologia de’ vescovi bitettesi, edizione manoscritta a cura di P. Giuseppe Maria dei PP. RR., 1835, Tomo I, Parte II, pp. 76-77, Biblioteca Comunale di Bitetto.
3. Carlo I d’Angiò aveva acquistato i diritti sul Regno di Gerusalemme da Maria principessa di Antiochia († 1274), figlia di Boemondo VI e di Isabella (o Sibilla) d’Armenia.
4. L. Fazio, Bitetto nel Medioevo. Profilo storico-urbanistico di un borgo rurale di Puglia, A cura dell’Arco, Bitetto 1997, p. 208.
Paolo Lopane
Di seguito una foto della moneta e delle immagini rappresentative lo stato di abbandono del Palazzo Vescovile: l’ingresso murato, la muta fontanella e la rigogliosa vegetazione infestante il muro su via del Rovescio. (Foto di T. Magrino)
Di recente, accurati lavori di pulizia condotti sulla lastra tombale di fra’ Raimondo di Bolera, precettore della domus di S. Maria di Sovereto, hanno restituito al suo nitore una croce di foggia ottagonale che, richiamo alle Otto Beatitudini dell’evangelico Discorso della Montagna (Mt 5, 3-10), rafforza la ragionevole certezza che il «religiosus vir frater Raymundus de Bolera» di cui parlava un documento (oggi scomparso) menzionato da D. Pasquale De Giacò (1), documento in base al quale nel 1297 il precettore aveva ratificato l’atto con cui nel 1219 fra’ Trasmondo, «precettore e maestro della chiesa di S. Maria di Soverito», aveva acquistato «dalle monache di S. Maria a Mare di Barletta un comprensorio di terre» nel tenimento di Terlizzi, appartenesse all’Ordine monastico-cavalleresco di S. Giovanni di Gerusalemme.
Del resto, la preziosa charta del 16 dicembre 1309 (2), charta in cui si legge che un «frater Poncius de Podio», «preceptor sancte Marie de Severito», aveva in quell’anno rivendicato beni dell’Ospedale indebitamente tenuti dal priore di S. Martino di Molfetta, attesta a chiare lettere che l’Ordine che gestì per secoli ladomus, a vocazione agricola e, insieme, ospedaliera, fu, appunto, quello fondato dal Beato Gerardo e militarizzato sotto la guida di fra’ Raimondo di Puy. Ancora nel 1475, come si evince da una lapide affissa sul portale dell’ingresso monumentale dell’atrio del santuario, la domus era retta da un precettore giovannita. Ciò non esclude, naturalmente, che questa fondazione monastico-cavalleresca, che, come ricordava il De Giacò, ospitava «due conventini separati», uno maschile, l’altro femminile, destinati alla cura dei pellegrini che «per lo lungo viaggio o si ammalavano, o stanchi avevano bisogno di riposo», potesse essere appartenuta nel XII secolo a quell’Ordine dei Cavalieri del Tempio la cui Regula, approvata nel Concilio di Troyes, all’art. LVI si limitava a raccomandare di non ampliare il numero delle sorores, evidentemente presenti sin dai primi anni della sua istituzione.
Ad ogni modo, la croce finalmente rievidenziata, che precede l’iscrizione relativa all’identità del precettore – «Hic iacet f(rate)r Ramundus de Bolera preceptor olim domus Sancte Marie de Suberito...» –, viene ad affiancare quella che, di tipo parimenti patente e di foggia anch’essa ottagonale, appare sulmantello del de Bolera, a ricordarci le Otto Beatitudini e, nel contempo, il sacrificio che questi monaci-combattenti – uomini che rinunciavano a tutto, alle gioie del mondo come alla quiete dei chiostri – seppero affrontare ad Hattin come a S. Giovanni d’Acri, a Rodi come a Malta, dove, resistendo alle soverchianti forze del sultano Solimano il Magnifico, nell’estate del 1565 avevano concorso a salvare la Cristianità dal tentativo ottomano di accerchiamento dal Sud.
NOTE
Particolare croce giovannita, foto prof. Cosma Cafueri docente di Fotografia
1 - Cfr. P. De Giacò, Il santuario di Soverito in Terlizzi, ossia notizie storiche e cronologiche riguardanti la invenzione della miracolosa immagine di Maria SS. di Soverito, Bari 1872, p. 30.
2 - Cfr. CDB, Le Carte di Molfetta (1076-1309), a cura di F. Carabellese, Bari 1912, vol. VII, doc. n. 170, p. 222.
Paolo Lopane
Deponendo nel processo di canonizzazione di Pietro del Morrone – il pio eremita della Maiella che, nel 1294, venne elevato al soglio di San Pietro con il nome di Celestino V – fra’ Bartolomeo da Trasacco, uno dei discepoli a lui più fedeli, dichiarò che le sue vesti erano nodosi cilici di peli gravati da pesanti catene che ne martoriavano le carni. Soleva cibarsi – aggiunse – di pezzi di pane raccattati d’estate, per lo più offerti in elemosina, pezzi che faceva seccare al sole per cibarsene d’inverno quando la neve avrebbe impedito di raccoglierne. Diveniva così duro, quel pane, che bisognava romperlo con il martello; e poiché, nel farlo, si frantumava tutto e ne uscivano ragni e vermi, doveva scuoterlo prima di mangiarlo.
Immagini forti, immagini rievocanti i tempi eroici dei primi anacoreti cristiani, certo agli antipodi dal triste spettacolo offerto da figure ecclesiali come quelle del successore di Celestino, Benedetto Caetani, quel Bonifacio VIII (1294-1303) che Dante definì «lo principe de’ novi Farisei» ed accusò di avere tratto «a ’nganno la bella donna» (la Chiesa) e d’ averne fatto «strazio»; ma agli antipodi, altresì, da quel papa Clemente V (al secolo, Bertrand de Got, † 1314) che, simoniaco e corresponsabile con re Filippo il Bello della tragedia dei Templari – «pastor sanza legge», lo definì l’Alighieri –, aprì la lunga ed oscura parentesi della “cattività avignonese”, conclusasi nel 1377, quando papa Gregorio XI (1370-1378), prendendo residenza in Vaticano, riportò nell’Urbe la sede del papato. Secondo il cronista Giovanni Villani, il «Guasco» aveva promesso al sovrano le decime del suo regno per cinque anni.
Si comprendono, dunque, gli sferzanti versi del Petrarca, che, già al servizio del cardinale Giovanni Colonna, avrebbe scritto nel Canzoniere:
«De l’empia Babilonia ond’è fuggita
ogni vergogna, ond’ogni bene è fori,
albergo di dolor, madre d’errori,
son fuggito io per allungar la vita»
(CXIV, 1-4)
Erano i secoli, quelli, delle grandi eresie, della rinascita dell’eversiva fenice gnostica, dell’accanita lotta contro gli Albigesi. Ma non era solo la contro-chiesa catara ad attaccare Roma. Le voci del dissenso si levavano alte dal di dentro, dal mondo cattolico, che da tempo auspicava un ritorno all’«usus pauper», alla «forma sancti Evangelii» – la povertà della Chiesa delle origini.
Ricordo le tonanti parole dell’Alighieri:
«Fatto v’avete dio d’oro e d’argento:
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
(Inferno, XIX, 112-117)
Il poeta si riferiva, qui, al Constitutum Constantini - la ‘Donazione di Costantino’ –, clamoroso falso elaborato dalla cancelleria pontificia e riconosciuto tale già da Lorenzo Valla nella prima metà del XV secolo.
Finanche nell’Ordine dei Cavalieri del Tempio – braccio armato del cristianesimo romano – si levarono alte le voci del dissenso. Penso, in particolare, al poeta Ricaut Bonomel, al suo Ir’ e dolor (1265 ca.), composto all’indomani della perdita di Arsuf, quando, amareggiato ed oramai disincantato, il frate occitano scrisse che
«Lo Papa fai de perdon gran largueza
contrals Lombartz a Carl’e als Frances;
e sai, ves nos en mostra gran cobeza,
que nostras crotz perdona per tornes.
E qui vol camjar Romania
per la guerra de Lombardia,
nostre Legatz lor en dara poder,
qu’il vendon Dieu el perdon per aver» (1).
Non sorprende che Jacopone da Todi, francescano della corrente degli Spirituali che avrebbe conosciuto il carcere e la scomunica per mano di Bonifacio VIII, volle rivolgere a Celestino V questa lauda ammonitoria:
«Que farai, Pier da Morrone? Éi venuto al paragone
(…)
L’Ordene cardenalato posto s’è en basso stato;
ciascheun so parentato d’arriccar ha intenzione!
Guàrdate da prebendate,
che sempre i trovarà affamate;
e tant’è sua seccetate
che non se ‘n va per potasone!
Guàrdate da baretteri
Ch’el ner bianco ’l fo vedere;
se non te ’n sai bene scrimire, cantarai mala canzone».
E mala canzone dovette cantarla davvero, Celestino, giacché, come presto vedremo, venne assassinato nella rocca di Fumone, presso Ferentino (in Ciociaria), dove Bonifacio VIII, dopo il gran rifiuto, l’aveva segregato. Cinque mesi e nove giorni era durato in tutto il suo pontificato: già il 13 dicembre 1294, influenzato dal Caetani, Pietro del Morrone pronunziò la renuntiatio. Lo fece, disse, perché infermo, inadatto per carenza di dottrina a reggere la Chiesa, ma anche – aggiunse – per il desiderio di tornare alla vita contemplativa: facendo, dunque, riferimento a cause di rinuncia canonisticamente ammesse come il «defectus scientiae» e lo «zelum melioris vitae». Un gesto, questo, che fece scalpore in tutta la cristianità; il gesto, per i più, di un santo. Ma il francescano spirituale Ubertino da Casale parlò di «horrenda novitas» e Dante Alighieri, ammesso che nel canto III dell’Inferno facesse davvero riferimento a lui, lo bollò con parole di fuoco.
Dopo avere, infatti, gettato lo sguardo sulla «lunga tratta di gente (…) disfatta» dalla «morte», il Poeta scrisse questi versi brucianti:
«Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto».
(Inferno, III, 58-60)
Lo collocò, dunque, fra gli ignavi – «questi sciaurati», si legge nel terzo canto, «che mai non fur vivi», che «visser sanza infamia e sanza lodo», che non seppero operare il bene per viltà – tormentati «da mosconi e vespe ch’eran ivi»: «elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lacrime, ai loro piedi da fastidiosi vermi era ricolto»: «sangue» e «lagrime», dunque: quel sangue e quelle lacrime che in vita non avevano saputo versare per una nobile causa, per una causa santa.
Ma non è finita: queste anime sono considerate dal Poeta «a Dio spiacenti ed a’ nemici suoi», ossia ai Dèmoni, e non a caso Dante aggiunge che
«mischiate sono a quel cattivo coro delli angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé foro»,
non essendosi cioè schierate, all’atto della ribellione di Lucifero, né con lui né con Dio: gli angeli neutrali.
Ricordo, qui, il cattolicesimo ideale di Dante, il pensiero fieramente riformatore di questo guelfo bianco che, contrario a qualunque ingerenza della Santa Sede nelle questioni secolari, anelava ardentemente al suo «Veltro», al fedele custode del gregge di Cristo che avrebbe scacciato via la «Lupa» (ossia la brama incarnata dalla curia romana) e si sarebbe nutrito di amore, sapienza e virtude. Ma anelava, altresì, a quel «Papa Angelico» che, atteso da tempo e vagheggiato dagli epigoni di Gioacchino da Fiore († 1302) e dalla corrente spirituale francescana, si contrapponeva alla triste figura del «Papa politico», perfettamente incarnata da uomini come Bonifacio VIII. In un’Italia in balìa di se stessa, dilaniata dalle discordie e dalle fazioni, nello scenario desolante del declino delle grandi istituzioni universali – il Papato e l’Impero –, la renuntiatio di Celestino V, aprendo la strada a Bonifacio VIII, stroncava ogni residuo sogno di rinnovamento e uccideva la speranza.
Ma si trattava davvero di Celestino V? Era a lui che il canto III si riferiva? Di fatto, l’accostamento al Molisano dell’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto risale all’epoca dantesca, a commentatori della prima e della seconda metà del Trecento come Graziolo Bambaglioli, Jacopo della Lana, Pietro di Dante, e, con qualche esitazione, l’autore dell’Ottimo e, a cavallo del Quattrocento, l’Anonimo Fiorentino. Ma già il Boccaccio († 1375), che fu il primo vero e più appassionato biografo di Dante, aveva scritto circa l’enigmatica figura che
«Chi costui si fosse, non si sa assai certo».
Ma leggiamo un passo del suo commentario alla Commedia, passo di grande interesse perché il Boccaccio raccoglie, qui, testimonianze del proprio tempo; dati che, in gran parte, hanno retto alla ricerca storica:
«Chi costui si fosse, non si sa assai certo; ma, per l’operazione la quale dice da lui fatta, estiman molti lui aver voluto dire di colui il quale noi oggi abbiamo per santo, e chiamamlo san Piero del Morrone, il quale senza alcun dubbio fece un grandissimo rifiuto, rifiutando il papato. E dicesi lui a questo rifiuto essere in questa maniera pervenuto, che, essendo egli semplice uomo e di buona vita nelle montagne del Morrone in Abruzzo sopra Selmona (…), egli fu eletto papa in Perugia, appresso la morte di papa Niccola d’Ascoli»: ossia Girolamo Masci di Ascoli, papa Niccolò IV (1288-1292), già successore di Bonaventura da Bagnoregio alla guida dell’Ordine Francescano.
Ma sentiamo ancora il Boccaccio: «considerando» la di lui «semplicità» – la simplicitas, cioè, di Celestino –, «messer Benedetto Gatano cardinale, uomo avvedutissimo (…) e disideroso del papato, astutamente operando, gl’incominciò a mostrare che esso in pregiudicio dell’anima sua tenea tanto oficio, poiché a ciò sofficiente non si sentìa. Alcuni voglion dire ch’esso usò con alcuni suoi segreti servidori, che la notte voci s’udivano nella camera del predetto papa, le quali, quasi d’angeli mandati da Dio (…), dicevano: ‘Renunzia, Celestino! Renunzia, Celestino!’». «Dalle quali mosso», continua Boccaccio, «elli (…) ebbe consiglio col predetto messer Benedetto del modo del poter renunziare. Il quale gli disse: - Il modo sarà questo, che voi farete una decretale, nella quale si contenga che il papa possa nelle mani de’ suoi cardinali renunziare il papato. – Il quale [Benedetto Caetani] come a doverla fare il vide disposto, essendo essi in Napoli, segretamente fu col re Carlo secondo, re di Cicilia, a cui stanza il detto papa poco davanti avea fatti dodici cardinali, e apertogli l’animo suo, gli promise d’aiutarlo con ogni forza della Chiesa nella guerra sua di Cicilia, dove facesse che, rifiutando Celestino il papato, esso facesse che i dodici cardinali, fatti a sua stanza, gli dessero le boci loro [ossia i loro voti] nella elezione: la qual cosa il re gli promise». ‘Voto di scambio’, dunque: il voto cardinalizio al Caetani in cambio dell’appoggio a Carlo II nella contesa con gli Aragonesi, che, dopo i Vespri siciliani, avevano strappato agli Angioini la Sicilia. «Laonde esso», continua il Boccaccio, «con alcuni altri cardinali italiani, sotto certe promessioni, ordinato questo medesimo, adoperò che il papa pronunziò la legge del dover potere rinunziare il papato: e il dì di santa Lucia, essendo stato cinque mesi e alcun dì papa, venuto co’ papali ornamenti in concistoro, in presenza de’ suoi cardinali pose giù la corona e il papale ammanto, e rifiutò al papato. Di che poi seguì che la vilia di Natale messer Benedetto predetto fu eletto papa e chiamato Bonifazio ottavo».
Ma non è finita: dopo aver suggerito a Celestino V le modalità canonistiche della rinuncia al papato, il cardinal Caetani, divenuto papa, nel timore di ritrovarsi di fronte un antipapa, con l’aiuto di Carlo II fece arrestare e segregare Pietro del Morrone a Castel Fumone. Ecco come la racconta Boccaccio:
«Bonifazio, (…) percioché vedeva gli animi di molti inchinarsi ad avere nel detto frate Piero, quantunque rinunziato avesse, divozione come in vero papa, fece il predetto frate Piero chiamare dal monte Sant’Agnolo in Puglia, dove per divozione andato n’era, e quindi, secondo che alcuni affermano, era disposto di passarsene in Ischiavonia, e quivi in montagne altissime e salvatiche finire in penitenza i dì suoi; il fece chiamare, e fecenelo andare alla rocca di Fumone, e quivi tennelo mentre visse».
«Mentre visse», dunque; ossia fino al 19 maggio 1296. Sulla sua morte, due sono le versioni. La prima, agiografica, vuole che il 13 maggio 1296, domenica di Pentecoste, Celestino, rinchiuso nella sua cella, avesse chiamato due suoi discepoli per chiedere l’olio santo, e questi, allarmati, avevano fatto accorrere le guardie. Costoro, dal venerdì successivo fino all’ora della sua morte – l’ora del Vespro – avrebbero visto sulla soglia della stanza dove l’uomo agonizzava una croce d’oro pendente nell’ aria. Ma il 29 agosto 1888, nella cappella di Santa Maria di Collemaggio dedicata a Celestino, il professor Luigi Gualdi ed altri quattro medici effettuarono una perizia sul teschio del Santo che non dà adito a dubbi. Si legge nel loro referto: «Nel punto + sporgente della bozza frontale sinistra, a livello della metà del margine sopra-orbitale, distante da esso circa 4 centimetri, esiste un forame rettangolare, a margini retti, senza nessuna lesione ossea circostante. Il lato orizzontale del rettangolo misura circa 5 millimetri; l’altro, il verticale, circa 9 millimetri. Il foro, penetrante in cavità, lascia nettamente distinguere i tre strati cranici». E conclusero «che l’origine della suddescritta lesione non possa menomamente essere accidentale, ma sia da dipendere dalla mano dell’uomo, col sussidio di adatto strumento; «che nell’ipotesi che tale strumento sia un chiodo di forma comune, il tratto di esso penetrato in cavità, abbia a valutarsi di circa 5 centimetri» (2).
Nel dicembre del 1982, il professor Marino Benvenuti (docente di psichiatria e neuropatologia e, per dodici anni, direttore dell’ospedale neuropsichiatrico di Collemaggio) ritenne trattarsi di «un colpo netto di pugnale a lama quadrangolare» (3): un’esecuzione, dunque, in piena regola, mentre Pietro dormiva.
NOTE
1) «Il Papa largheggia in indulgenze per la guerra di Lombardia a beneficio di Carlo e dei Francesi; mentre da noi mostra grande avidità, se, per soldi tornesi, fa indulgenza con le nostre croci. A chi volesse cambiare la Romania per la guerra di Lombardia, il nostro Legato gliene darebbe facoltà; perché [i chierici] vendono Dio e il perdono per danaro».
2) Cfr. O. GURGO, Celestino V e gli Spirituali, Mamma Editori, Gugnano 1998, pp. 272-273. L’opera è frutto dell’integrazione e rielaborazione dell’ottava edizione del volume (del medesimo autore) Celestino V, De Agostini, Novara 1988.
3) ID., p. 273.
Paolo Lopane
di Paolo Lopane
Il recente ritrovamento in agro di Mola del manufatto rurale suggestivamente denominato «Torre delle Stelle», prontamente segnalata alla competente Soprintendenza dal professor Vito Didonna e dal dottor Andrea Giorgio Laterza, merita certamente l’attenzione dello storico.
Ad un occhio disattento potrebbe apparire come una delle tante torrette di campagna adibite ab origine a rifugio o deposito agricolo, ma, al di là dell’utilizzo che nel corso del tempo ne sia stato fatto, la costruzione, ricoperta da incisioni di diversa fattura la cui grammatica figurativa, di carattere religioso, insiste sul simbolismo cristiano della stella, deve aver avuto una funzione (se non pure una destinazione) sacrale.
La «torre» presenta, del resto, manifeste analogie con un altro manufatto scoperto nel 1969 in agro di Mola (località San Materno) dal dottor Sebastiano Tagarelli, che in un saggio sulla vicina necropoli di Azetium, pubblicato nel giugno di quello stesso anno, lasciò un’accurata descrizione di questo sacrale monumento di forma circolare con cupola tronco-conica che venne poi sciaguratamente abbattuto.
Il Tagarelli non esitò a parlare di «costruzione paleocristiana» e, quindi, di «camera sepolcrale», con particolare riferimento ad una lastra sormontante l’ingresso del monumento che, inquadrata in una suggestiva cornice di stelle, recava incisa la scena della Deposizione di Cristo. Le figure stilizzate del «Cristo deposto», della Vergine, di san Giovanni e della Maddalena, scolpite ai piedi della Croce, non possono stilisticamente non richiamare le incisioni di figure a sfondo religioso che campeggiano su una lastra calcarea incassata sul frontale della «Torre delle Stelle», dove si vedono chiaramente il profilo di una figura femminile coronata – con ogni probabilità la Vergine con il capo coronato di stelle –, l’immagine di un teschio ed otto sagome presumibilmente maschili.
Lo stile delle incisioni ed i contenuti iconografici delle lastre, con il palese riferimento alla vittoria spirituale sulla morte (il sepolcro di Cristo, il teschio, la Donna «vestita di sole» dell’Apocalisse) fanno pensare che in fase di costruzione (o di ricostruzione) della «torre» sia stato utilizzato materiale lapideo proveniente dalla necropoli dell’antica Azetium, la cui area continuò ad essere abitata anche in epoca romana ed ancora nell’Età di Mezzo fu presumibilmente attraversata dai numerosi «viandanti di Dio» che, diretti ai porti d’imbarco per la Terrasanta, percorrevano il tratto litoraneo dell’Appia Traiana o le diramazioni del ramo subcostiero di quest’antica strada che, biforcandosi a Bitonto, conduceva ad Egnatia attraversando le località di Caelia (l’odierna Ceglie del Campo), Azetium (a nord-est di Rutigliano) e Norba (l’attuale Conversano).
Quanto alle numerose stelle che decorano la «torre» – a cominciare da quella a cinque punte incisa sul pinnacolo sormontante il frontale –, testimoniano di una remota tradizione artistica che già in epoca paleocristiana, con riferimento ai passi biblici in cui il simbolismo della luce ricorre in chiave messianica, elevò la lux Christi a cifra stessa dell’epifania del Redentore.
Il Cristo-Lógos – «Sol salutis occasum nesciens» («Sole di salvezza che non conosce tramonto») – fu infatti raffigurato anche in veste solare: si pensi al mosaico della necropoli sottostante la basilica romana di San Pietro, dove Cristo è presentato con gli attributi di Apollo, la quadriga e i cavalli; ed è in tal senso significativa la leggenda secondo la quale Costantino il Grande fece usare schegge e chiodi della Vera Croce per far incorniciare una statua di Apollo e creare sul suo capo una corona di raggi.
Risoluto ad evitare lo sfaldamento dell’Impero, Costantino aveva un evidente interesse a saldare il cristianesimo ai culti eliaci preesistenti. Fu lui ad insistere perché il «Dies Natalis», la ricorrenza della nascita del Salvatore, fosse spostato al 25 dicembre, giorno che, nel culto persiano di Mithra come in quello siriaco del Sol Invictus, coincideva con la sacrale rinascita del Sole nella settimana del solstizio invernale.
Ma, qualunque cosa fosse davvero accaduta nell’imminenza della battaglia di Ponte Milvio, quando, secondo la tradizione, Costantino fece dipingere il monogramma di Cristo (le lettere greche Chi e Rho) sugli scudi dei suoi legionari a seguito della visione di una croce luminosa con la scritta «in hoc signo vinces», l’antico monogramma del Cristo, raffigurato in un duplice o triplice cerchio, continuò a rappresentare l’equivalente della ‘ruota solare’, eliaco simbolo associato all’immagine del «Kronocrator» (Cristo Signore del Tempo) e quindi scandito dalla croce assiale.
Polisemico come ogni simbolo, nella variante assunta nella tradizione irlandese il chrismon rinviò altresì all’idea delle cicliche età del mondo, con il Cristo-Sole collocato al centro del progetto escatologico divino. Idee, queste, che si ritroveranno nella «Croce ciclica» di Hendaye (Basses-Pyrénées) come nel ciclo di affreschi della chiesa templare di Montsaunès (Haute-Garonne), dove, come ricorda lo storico dell’arte Gaetano Curzi, si ripropone «il tradizionale accostamento, sia formale che semantico, del chrismon ai corpi celesti, secondo un’assimilazione di consolidata tradizione, basata sui passi biblici che identificano Cristo come ‘vera stella’».
Analogamente, nella grammatica figurativa della chiesa templare di San Bevignate, a Perugia, si rileva una «sequenza di allegorie cristologiche» che «dalla croce del supplizio» va «al Cristo-luce» e, quindi, «all’assimilazione di Cristo come ‘vera stella’».
Ma, per restare in terra di Puglia, non si può sottacere quanto affiora nei quattrocenteschi affreschi del vano attualmente adibito a sacrestia della chiesa ospitaliera di Santa Maria di Sovereto (presso Terlizzi), dove sotto una volta disseminata di stelle, campeggia un sole raggiante accanto ad una tradizionale croce greca, a una vistosa stella ad otto punte e a diversi altri simboli tradizionali che, come nella Cripta del Crocefisso di Ugento – palinsesto di culture il cui quadro d’assieme racchiude una stupefacente varietà di rotae e (di nuovo) di stelle – bene esprime la lettura olistica che l’uomo del Medioevo (più in generale, delle civiltà tradizionali) faceva attraverso la «signatura rerum» del mondo e delle sue creature, cifra e specchio di verità spirituali e, quindi, dei divini misteri.
Non sbaglia quindi Maria Stella Calò Mariani, in uno studio sull’insediamento teutonico di Torre Alemanna (presso Cerignola), nel rilevare come la stella clipeata a cinque punte che funge da chiave di volta dei quattro costoloni che si dipartono dai capitelli a crochet sormontanti le colonnine di pietra del vano a piano terra del torrione, altro non rappresenti che «il pentagramma di memoria pitagorica», «emblema del microcosmo» che nella mistica cristiana assurse a simbolo delle cinque piaghe di Cristo e della salvifica «Stella del mattino»; né sbaglia nel riconoscere il medesimo simbolo accanto alla serie di scudi cavallereschi graffiti sulla superficie degli affreschi di San Michele Arcangelo e della Vergine Odegitria nella chiesa rupestre di Ognissanti sul Gargano.
Di fatto, lungo il cammino pellegrinale denominato ‘Scannamugliera’, che sulle pendici di Monte Sant’Angelo s’inerpica fino alla grotta d’Ognissanti, si nota un altro suggestivo simbolo della tradizione eliaca: una croce greca inscritta in un cerchio, croce che sul piano figurativo s’apparenta a quella scolpita in un blocco di pietra sul muro perimetrale opposto alla facciata principale della «Torre delle Stelle» e, per molti versi, alla croce inscritta in un cerchio che campeggiava sul blocco centrale di chiusura della porta del monumento scoperto e poi distrutto in località San Materno.
Ce n’è abbastanza, dunque, per comprendere il valore storico di un manufatto – la molese «Torre delle Stelle» – che allo stato attuale della ricerca non è ancora possibile collocare entro precise coordinate temporali ma che testimonia comunque di una remota tradizione artistica che nella mistica cristiana ha trovato, infine, esito e compimento.
Un luogo, dunque, ricco di storia; un luogo dello spirito che testimonia del naturale ruolo della Puglia quale ponte e terra di accoglienza, veicolo di scambi e sincretismi culturali le cui mirabili tracce, scolpite nella pietra, continuano a sfidare i secoli nelle facciate dei suoi templi.
Mi auguro, quindi, che la «Torre delle Stelle» venga preservata dalle incurie del tempo non meno che dalla vandalizzazione di mani sacrileghe: affinché lo scempio compiutosi a San Materno non abbia a ripetersi ancora.